“Ich bin ein berliner”: con questa frase John F.Kennedy, sessant’anni fa, era il 26 giugno 1963, colpì al cuore il mezzo milione di berlinesi accorsi ad ascoltare il suo discorso in una città ferita, divisa e lacerata da quel Muro che tagliava in due la capitale tedesca, eretto dal regime comunista della Germania Est sotto controllo della Unione Sovietica e chiuso nella notte tra 12 e il 13 agosto nel 1961.
In una città già punita dalle nazioni alleate nella conferenza di Jalta dalla divisione in quattro settori di influenza, sovietico, americano, britannico e francese, al termine della seconda guerra mondiale nel 1945, con la sconfitta della Germania nazista, il grido del presidente americano “Io sono un berlinese” rappresentò un monito all’intero occidente a non lasciare sola l’Europa sotto la minaccia del comunismo ed allo stesso tempo la promessa di non abbandonare i berlinesi al loro destino, nelle mani del minaccioso e totalitario orso sovietico.
Una frase, quella di JFK, fuori dal protocollo ufficiale, dettata dall’entusiasmo di trovarsi in una piazza gremita e speranzosa di ascoltare parole di conforto e di speranza, cosa che puntualmente accadde e che per il presidente americano rappresentò uno dei momenti più alti e significativi della sua presidenza, prima di essere assassinato a Dallas cinque mesi più tardi, il 22 novembre 1963, in circostanze non ancora del tutto chiarite, nonostante siano passati 60 anni.
Se quel discorso di Berlino rimane impresso nella memoria e nella storia oggi, a distanza di oltre mezzo secolo, un’altra città europea, stretta d’assedio dalla morsa della guerra e dal pericolo di una invasione già in atto nel resto del Paese, totale e potenzialmente ferale, avrebbe bisogno della forza prorompente che trasmise Kennedy in quei nove minuti di abbraccio ai berlinese ed è Kyiv.
In questo anno e mezzo, da quando è iniziata la guerra di invasione di Putin all’Ucraina, non sono stati pochi i leader mondiali che hanno manifestato la loro solidarietà a Zelensky ed al paese assediato recandosi nella capitale ucraina, ma nessuno ha, per ora, dimostrato di avere il carisma di Kennedy e la potenza mediatica e comunicativa di esprimere, ad una folla adorante come fece lui, parole di portata storica come quelle di JFK che divennero uno slogan di fama mondiale.
Ancora oggi, per manifestare solidarietà a paesi e nazioni colpite da lutti, stragi terroristiche o tragedie si usa dire “siamo tutti…”cittadini del paese in difficoltà, ma per sortire l’effetto sperato questo slogan andrebbe evocato da leader carismatici ed evidentemente “Io sono un ucraino”non ha ancora trovato quel testimonial d’eccezione adeguato, come fu John Fitzgerald Kennedy per i berlinesi.
Forse la visita di Papa Francesco, più volte accennata dal pontefice, potrebbe rappresentare quel punto di svolta di una guerra insulsa ed inutile che sta spargendo gratuitamente morte e distruzione e quel motto “Io sono ucraino” detto da Bergoglio sulla piazza di Kyiv avrebbe un impatto di portata storica di kennediana memoria.
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