È giusto e doveroso ricordare, come ha fatto Roberto Conticelli nella sua riflessione su OrvietoLife “Dalla parte dei perdenti”. Ne raccolgo la suggestione perché inevitabilmente e per appartenenza geologica gli anni di cui si parla, anche qualcuno di più per via dell’anagrafe, li ho vissuti anche io e dunque ne posso testimoniare, qualunque cosa mi venga da dire. Lo dico mettendo le mani avanti, con cautela preventiva.
Che si riapra il libro del passato della nostra Città è sempre non solo una divagazione utile, ma uno spiffero benefico in sé, perché fa circolare aria, ancorché consumata dagli anni, come accade nelle soffitte a cui per tanti versi rischia di assomigliare questo accrocco di bellezza vilipesa da frotte di visitatori di un istante che riempiono con la loro illusione il vuoto di lavoro, il buco della demografia e il sottoscala della regione in cui (ci) siamo confinati. E per favore decidiamo una buona volta di non chiamarla più “alta e strana” come pure ho fatto anche io, macché alta! Uno spuntone di roccia appena più su del livello del mare, quanto alle stranezze non dobbiamo certo regredire al Trecento di Fazio degli Uberti per continuare a trovarne così copiose e ripetitive che sarebbe il caso di non farne un vanto.
Dunque, il passato. Lo dico subito, non ho rimpianti e nostalgie e mi spiego subito per evitare malintesi. Questo tempo mi è toccato e ci è toccato di vivere, questo e non un altro, e si è allungato al punto da poter essere rivisto all’indietro e far emergere l’irreversibile delle trasformazioni e delle mutazioni che non è neanche il caso di rimettere in fila perché tutti sanno della civiltà contadina e di quella dei consumi, della Prima Repubblica, della Seconda e forse della Terza, della trinità dei partiti che ci ha governato almeno fino a Mani Pulite…
Il tempo anche quando sembra stare fermo o rallentare va sempre avanti e il ricordo può servire come psicologico lenimento delle disgrazie presenti, con il rischio di ricadere sempre nella trappola-torcicollo quando invece sarebbe meglio usare lo specchietto retrovisore mentre si guarda e si va avanti, per un confronto che mettendo in distanza da noi stessi si riverbera sul presente e lo alimenta perché ne ritrova radici e fili genealogici che tornano ad essere visibili e ristabilisce, questa sì, consonanze di sensibilità e di sentimenti e di visioni.
È così che possiamo ritrovare esempi di volontà, impegno, operosità illuminata, che se per un verso vanno collocate nel loro tempo, per l’altro ritornano a noi con la carica di umanità e dunque anche nella ricchezza contraddittoria che dell’umanità fa inevitabilmente parte. Consonanze e differenze e magari la voglia trasversale di parlarsi, avendo intorno – come accadeva allora, gli anni Sessanta – un cielo di stelle fisse che sembrava immutabile al contrario di oggi in cui tutto oscilla e fibrilla, le stelle, i punti di vista, le idee, le bussole, con in più la melassa ambigua della rete e la residuale e eterodiretta partecipazione social.
Ha fatto bene Conticelli a ricordare quelle personalità, Romolo Tiberi, Romolo Romoli, Sergio Ercini, Alberto Piscini.. e il clima di quegli anni. Li dice “perdenti… ma vincenti”, campioni ben attrezzati di civismo che sarebbe, appunto, il caso di ricordare, senza la retorica che nessuno di loro avrebbe amato, cattolicamente consapevoli delle cose del mondo e ironici come erano.
Sacrosanto. E qui mi permetto di andare oltre.
Orvieto allora si apriva a un turismo in cui nessuno avrebbe potuto riconoscere l’invasione distratta di oggi, i comunisti, i democristiani e i socialisti si parlavano e collaboravano sapendo di una mappa geopolitica disegnata sulla roccia di Yalta e quello che restava del paese contadino trovava ancora un equilibrio con le attività del commercio, le professioni liberali, le botteghe artigiane, gli interessi di un’imprenditoria che accumulava ricchezza non sempre con la capacità-leadership di una visione della Città.
Orvieto non era in una bolla separata, stava nell’Italia di allora e in quel periodo – oggi lo possiamo dire – riusciva ancora a governare senza strappi e pure con una qualche inerzia dovuta proprio alla stabilità del contesto un passaggio che via via avrebbe messo insieme cambiamento e contraddizioni sempre più profonde, dal rapporto tra il centro storico alle insulae suburbane all’ultimo sforzo della storica amministrazione di sinistra di progettare un futuro attraverso i beni culturali, non chiudendo però il cerchio dell’economia della cultura come si vede oggi con la desolazione dei grandi contenitori vuoti; dalla massificazione che avrebbe infierito sul centro storico, via via sempre meno centro e con sempre meno vitalità direzionale e sociale, e creato periferie, ancorché in sedicesimo, rispetto a quelle metropolitane.. E, ancora, le difficoltà di alimentare un’offerta di lavoro che non fosse legata a quella del domenicale intrattenimento turistico e centrata su un rivitalizzato e produttivo artigianato, su un rilancio di attività culturali fondate su ricerca e scuola, su un terziario attrattivo e su un quaternario non depresso da cortocircuiti aziendali, per non parlare della ombra sinistra della curva demografica, sensore inesorabile del declino.
Ma qui siamo già all’oggi, qui, ora, sul bordo in cui il margine dell’iniziativa e del progetto si va restringendo e forse a chiudersi nell’irreversibilità di un destino. Ora, adesso, chi può dire alla fine dove stiamo andando, perché comunque stiamo andando… Orvieto ha attraversato tante fasi della sua storia, è stata la Città che con la sua sanguinosa potenza ha tirato su il Duomo e quella che alla metà del ‘400 il Papa Pio II trovava cadente, abbandonata e negletta.
Fa parte della Storia questo diagramma, ma noi viviamo oggi, ora, adesso e il passato lungi dall’essere un deposito è e deve essere il materiale di un pensiero sulla Città che generi l’azione che la orienta e predispone al futuro. Averne la speranza è un dovere morale e non solo un rimando all’idealismo di Benedetto Croce. E un atto di resistenza e di orgoglio, anche con l’esemplarità che il passato ci consegna, verso la palude che potrebbe attenderci, domani.