I poster con i simboli delle corporazioni delle arti e dei mestieri orvietane che coprono le vetrine della bottega Michelangeli sono un po’ come quelle tendine di pizzo che fanno intravedere qualcosa della casa che si trova dall’altra parte del vetro: non si capisce veramente cosa stia accadendo all’interno, è un vedo non vedo. E credo che gli Orvietani ancora non l’abbiano in effetti capito, altrimenti come spiegare il silenzio (anche delle istituzioni) che è seguito alla notizia, strisciante al punto da non essere presa per vera, che Michelangeli chiude. La retorica del pezzo di storia che se ne va, delle tradizioni che non sono tutelate, l’eventuale “buco” nel tessuto cittadino di un punto di riferimento come quello della bottega, sono tutte considerazioni che lascio ad altri. Quello che mi ha colpito è che un’americana più Orvietana di tanti Orvietani, Erika Pauli Bizzarri, abbia saputo concentrare in alcune sue righe quello che potrebbe essere il pensiero di tutti. Riprendo e traduco, al meglio ma di certo con una resa inferiore, il testo apparso nel suo blog (erikabizzarriorvieto.com). Voglio credere che ci sia in tutti la forte speranza che qualcuno possa riprendere le redini della bottega e quelle dei cavalli di legno che rimangono a far la guardia al vicolo, con le panche che accolgono ancora le terga stanche dei turisti e degli Orvietani.
Un grazie alla famiglia Michelangeli ci starebbe proprio bene!
Michelangeli Closing
C’era una volta un uomo e c’era una volta una bottega ed un vicolo che ne portava il nome. Se si parlava di Michelangeli si parlava di Orvieto e se si parlava di Orvieto nella mente di molti c’era Michelangeli, di norma Gualverio, ultimo di una dinastia di artigiani.
Secoli or sono l’imperatore Diocleziano decretò che i figli dovevano seguire le orme dei padri. Questo accadeva appunto secoli fa ma sembrava ancora naturale che i figli seguissero la tradizione dei padri. Gualverio era cresciuto con l’odore della segatura del legno, ne aveva imparato i segreti e come lavorarlo da suo padre, il quale a sua volta l’aveva imparato dal suo di padre, e questi, ancora prima, dal suo. C’erano anche diversi zii in famiglia e tutti potevano, in qualche maniera, far risalire le proprie origini a Michele, un artigiano nato nel 1789, quando l’Italia non era nemmeno stata unificata.
Gualverio aveva un modo tutto suo di lavorare il legno rispetto a quello dei suoi predecessori, gli piaceva in particolare scoprire la natura nascosta delle fibre, la loro anima. Anche se il suo laboratorio continuava a produrre mobili, Gualverio sembrava in un certo senso essere rimasto bambino e creava un intero serraglio in grado di divertire sia i bambini che gli adulti. Quando venne a mancare – e non sarebbe stato ancora il suo tempo – il suo spirito venne catturato nell’epitaffio che si volle sulla sua tomba.
Verranno e lo ricorderanno come un mago buono,
abile come pochi a costruire sogni,
frammenti di sole, gioia e di poesia.
Tra le solide mura spugnose di Orvieto
I piccoli animaletti di Gualverio erano regali perfetti per i bambini nati da poco. Con la complicità di un assortimento di piccole rane ho scritto una storia per questi bambini.
C’era una volta – le storie iniziano sempre così – c’era una volta, ma non tanto tempo fa, una città nata su una rupe. Come la nostra.
La maggior parte delle case erano molto piccole e costruite in tufo, ed il tufo aveva visto nascere bambini che erano poi divenuti madri e padri a loro volta e poi nonne e nonni. In questa città le persone erano tranquille. Amavano guardare le nuvole che passavano e si gonfiavano e vedere la luce del sole giocare con le colline vicine. Aspettavano il ritorno delle rondini ogni primavera ed il cambiare dei campi dal verde al giallo dorato del grano. Sapevano che Ottobre significava uva – e pure castagne, quelle che venivano arrostite sul fuoco fino a farne la buccia nera ma sempre dolci nella polpa.
Ora, in questa città, viveva un uomo che aveva tre figlie – amava le sue figlie e amava gli animali. Così un giorno decise di fare dei gatti per loro in modo che potessero fargli compagnia. E poi fece dei cani – e pure dei leoni – ed alcune rane – dimmi che animale vuoi ed io te lo faccio.
Di giorno questi animali facevano credere a tutti di essere fatti di legno, ma di notte, quando nessuno li vedeva, iniziavano a raccontarsi storie su quello che avevano visto durante il giorno. I gatti in effetti non è che dicessero molto – i gatti non sono come i cani e stanno sul suo. Anche le civette erano, per l’appunto, vecchie civette sagge che stavano abbarbicate ai loro trespoli o su rami e quanto più vedevano tanto meno parlavano, e tanto meno parlavano e tanto più ascoltavano, diventando sempre più sagge. Ma c’era anche la famiglia delle rane che faceva un baccano infernale – e credetemi loro non gracidavano – questo è quello che gli adulti vi diranno riguardo alle rane, che gracidano – loro cinguettavano, e fischiavano e trillavano e borbottavano. Tu lo sai fare? Prova e fammi sentire.
Saltellavano in giro per vedere cosa gli altri stessero facendo – saltavano in groppa al cane per essere scarrozzate gratis, giocavano col gatto che provava a prenderle ma senza speranza. C’erano rane grosse e rane piccole, rane verdi e rane marroni. Ed un giorno una coppia di rane saltò in una sfera di plastica e volò dall’altra parte dell’oceano (avrebbero potuto anche nuotare ma ci sarebbe voluto molto più tempo).
Dopo poco arrivarono in una casa a Baltimora dove c’era una bambina di nome Charlotte. Le rane sperarono che lei capisse che potevano essere i suoi amici speciali e a loro lei piacque così tanto che invitarono fratelli e sorelle – alla fine Charlotte scoprì di avere un’intera famiglia di rane, che le faceva compagnia quando mamma e papà avevano i loro problemi da risolvere – e Charlotte era contenta e rideva ed allora anche mamma e papà, dimenticandosi dei loro problemi, ridevano con lei: si poteva quasi toccare quell’aura di felicità che emanava da persona a persona fino a formare una grande famiglia felice, una famiglia che rideva con le rane. Ed è così che Gualverio avrebbe voluto che noi lo ricordassimo. Ora i tempi cambiano, la bottega chiude, Orvieto non sarà più la stessa.