Lunedì 31 gennaio, alle 9,15 della mattina, mio padre si è sentito male in bagno poi, con i segnali di un ictus, ha perso conoscenza. L’ambulanza, chiamata col cuore in gola, ha impiegato 11 minuti per arrivare ad Orvieto centro, altrettanti per i primi soccorsi, poi per caricarlo sul telo rigido, sul lettino ed infine sul veicolo che lo ha trasportato, a sirene spiegate, all’Ospedale Santa Maria della Stella.
Un ospedale di provincia, sempre meno finanziato, sempre meno salvaguardato.
Un ospedale che per alcuni politici non dovrebbe nemmeno esistere più, per fare spazio ad un polo più grande a Terni e ad ambulatori privati. Un ospedale piccolo, con segnali di smantellamento precedenti al Covid, che il Covid sta rendendo sempre più evidenti. Eppure, nonostante questo, il piccolo ospedale di provincia e mezzo smantellato dispone, oltre che di un efficientissimo pronto soccorso, anche di una Stroke Unity, un reparto specifico per gli ictus, voluto dal suo primario, il Dottor Bracaccia, in cui medici preparati e operativi sono in grado di somministrare ai pazienti un farmaco chiamato fibrinolisi. Un farmaco che se usato entro le tre ore immediatamente successive all’ictus è in grado di salvare la vita, e la dignità della vita, alle persone colpite.
In poco più di un’ora, una dottoressa calma, lucida e precisa ci ha telefonato per chiedere l’autorizzazione a procedere con la somministrazione di questo farmaco, in grado di disciogliere il trombo che ostruisce il cervello ed evitare danni neurologici, ma anche di causare effetti collaterali indesiderati, tipo emorragie. Un rischio che si deve correre. Su nostro consenso, mio padre è stato sottoposto a fibrinolisi. Immediatamente dopo, ha ripreso conoscenza ed è stato in grado di muoversi e parlare, al 100 per cento e senza alcun problema. La sera stessa, in via del tutto eccezionale, mia madre ha avuto la possibilità di vederlo.
Mio padre si chiama Enrico, Giuseppe, Giovanni, Mario, Luigi, Antonio, Stefano. Ha cento nomi, mille, un milione. Ha il nome di tutte le persone che il Santa Maria della Stella ha salvato, salva o salverà.
Sempre che non venga finito di smantellare.
Allora, in quel caso, la fibrinolisi sarà stata una scoperta inutile. Come tutte le cure mediche che hanno bisogno di un tempismo, di una rapidità d’intervento.
E sempre che il Covid non continui ad impedire ai malati di curarsi regolarmente nei suoi reparti, troppo a lungo impegnati nella lotta al virus. E anche ad impedire ai familiari di vederli, i propri cari, andati via con l’ambulanza, in situazioni critiche, e che si risvegliano soli in un letto d’ospedale. Che impedisce di poterli visitare, anche solo per 5 minuti al giorno. Perché la legge umbra dice questo. Dice che per via del Covid in certi reparti sono vietate le visite. È una legge regionale ed è una legge assurda e sbagliata. Perché ora, che quasi tutti siamo plurivaccinati e pluritamponati, che le misure si allentano ovunque, che addirittura le discoteche riaprono, è ingiusto privare le persone malate del conforto di vedere i propri familiari.
Scrivo questa lettera per ringraziare gli operatori del Pronto Soccorso, che sin dalla telefonata d’emergenza hanno saputo fornire indicazioni chiare e precise su come soccorrere mio padre nell’attesa dell’arrivo dell’autoambulanza; per ringraziare il signore sconosciuto che stava facendo colazione al bar ed ha mollato tutto per venire ad aiutare per trasportare mio padre giù dalle scale; per ringraziare la Dottoressa Annulli, la Dottoressa Gentili e tutti i loro colleghi, che se ne sono presi cura, che ogni giorno hanno telefonato per dare notizie; per ringraziare le usciere garbate, con i loro sorrisi rassicuranti; le infermiere e gli infermieri che si sono fermati a parlare con lui, e non solo per lo stretto necessario che compete al loro ruolo. I pazienti di quella unità sono per lo più persone grandi, anziane, che dopo un incontro ravvicinato con la morte si ritrovano sole in un letto d’ospedale, magari spaesate, addolorate, ma vive. Come per miracolo. Che miracolo non è. Perché è frutto di passi da gigante che la medicina sta facendo, un progresso che si nutre di conoscenza ed è esito di un processo, che parte dalla scuola e passa per l’Università e la ricerca. Tutte realtà su cui si è smesso di investire.
Mio padre è stato fortunato, perché non gli è successo di sentirsi male a Parigi, come a quel noto fotografo che colto da un malore si è accasciato per strada, e lì è rimasto, a terra 9 ore nell’indifferenza generale, prima che qualcuno, un clochard, lo soccorresse quando era già morto di ipotermia. È stato fortunato perché non ha fatto in tempo a chiudersi a chiave prima di perdere conoscenza, perché noi abbiamo capito cosa stava succedendo, perché l’ambulanza è arrivata in 11 minuti, perché ha trovato medici competenti che gli hanno fatto in tempo la fibrinolisi, perché ha potuto vedere mia madre ogni tanto, perché dopo nove giorni è tornato a casa sulle sue gambe, tale e quale, anzi forse un po’ meglio di prima, con una nuova occasione di vita.
Forse è stato dimesso in fretta perché ha creato un sacco di rogne, perché una volta recuperate le forze voleva scappare dall’ospedale, e ci ha anche provato, e allora mia madre ha tampinato medici ed infermieri ogni giorno, con la pretesa di entrare a parlarci anche solo 5 minuti, e convincerlo di restare dov’era. E non perché si aspettasse un’eccezione alla regola, un privilegio. Ma perché l’assistenza ai propri malati è sacrosanta e fa parte della dignità umana. Avere il conforto delle persone amate è un diritto dei malati. Di tutti i malati. E di tutti i loro familiari.
Quindi questa lettera, oltre che per ringraziare tutti i medici e gli infermieri della Stroke Unity del Santa Maria della Stella, è anche un invito a non smantellare niente, anzi a migliorare, e cambiare le regole, là dove è giusto e possibile.
Perchè anche in un mondo malato la dignità delle persone deve venire prima di tutto.
Chiara A. Ridolfi
P.S. Faccio i miei migliori auguri al papà di Chiara e con l’occasione spero che la nostra battaglia, come giornale, di dare dignità all’ospedale di Orvieto, dai farlo diventare a tutti gli effetti un luogo di cura per l’emergenza-urgenza e per le tempodipendenze, ictus e infarti in primo luogo, senza viaggi in ambulanza o in elicottero.