La narrazione (ora va di moda dire così) vuole che a Orvieto sia in vendita la quota di stragrande maggioranza di una cassa di risparmio profittevole, radicata sul territorio e addirittura simbolo della sua “attrattività”. Felici di saperlo perché, obiettivamente, in questa ultima fase storica, l’unico (o quasi) comunicato stampa diffuso orgogliosamente dalla banca cittadina (una volta andava di moda dire così) ha glorificato il finanziamento milionario concesso a una società di autonoleggio fiorentina. Ottima notizia per il territorio, anche se è posizionato centocinquanta chilometri più a nord. Chi ha sognato di leggere la celebrazione di una fiducia equivalente che andasse a sostenere le idee di qualche coraggioso imprenditore (ma c’è?) delle nostre parti è rimasto deluso: da anni va così. Prima le risorse prendevano la via di Bari, ora anche Firenze, chissà in futuro.
Ragionare sulle banche impone una visione laica: i soldi, oltre a non avere né puzza né odore, sono geograficamente senza confini.
Per questo, premettendo che il proprietario dell’85% della “cassa” è il Mediocredito Centrale, cioè lo Stato, che l’ha usata pro tempore (salendo e scendendo come si fa con la funicolare) per toglierla dall’imbarazzo delle conseguenze di un legame deleterio con la Popolare di Bari, la cessione era prevista ed è legittima. Ci mancherebbe.
Già, lo Stato. I clienti e i dipendenti della “cassa” sono contribuenti e cittadini con uguali diritti. Si può dire lo stesso della Fondazione e, indirettamente, dei suoi soci e consiglieri. Il tema, allora, è questo: proprio lo Stato, proprietario della banca, ha scelto deliberatamente di non prevedere una minoranza nella gestione dell’istituto, venendo meno ai principi di giusta rappresentanza, se non proprio di democrazia, almeno finanziaria. Non può essere accettabile per la politica, per le Istituzioni e per le autorità che vigilano su queste riorganizzazioni e che hanno il dovere di tutelare le minoranze (in questo caso una Città), visto che le maggioranze possono, evidentemente, fare quello che vogliono.
Quel che accadrà è già scritto: con la premessa che gli orvietani della questione potrebbero anche infischiarsene (e magari con l’arrivo di un acquirente “industriale”, dotato di marchio e capacità, potrebbero anche guadagnarci), il passaggio di mano della Cassa di Risparmio sta maturando più o meno a tavolino, al riparo da occhi indiscreti, romanamente guidato e senza possibilità di critica o partecipazione. Ma sarebbe sincero ammettere che, per quanto lascino increduli, processi di questo genere non sono mai un fulmine a ciel sereno. Mai.
Possono accadere tre cose: la prima è che la “cassa” venga ceduta, quasi come un aiuto di Stato mascherato, a qualche microcosmo bancario che ha bisogno di aumentare le masse e gli sportelli (quelli rimasti, perché alcuni sono stati chiusi nell’indifferenza generale) per non sparire.
La seconda è che questa operazione possa essere realizzata anche attraverso un aumento di capitale e successiva fusione che annullerebbe definitivamente la presenza della Fondazione nella gestione (peraltro è già così): annullerebbe, cioè, l’esistenza e il rispetto di una minoranza, civica ancor prima che finanziaria.
Poi, c’è la terza possibilità: chi arriva avrebbe a cuore il mantenimento del rapporto con la Città e, quindi, tenderebbe la mano a questa minoranza, siglando l’ennesima opzione per la vendita della quota della Fondazione a determinate modalità di prezzo e tempi.
Anche questo è già accaduto, ovunque. Da anni operazioni così vengono utilizzate per cacciare le fondazioni dai capitali: a spingere in questa direzione, oltre ogni ragionevole dubbio, è da sempre la Banca d’Italia. Quindi, partita persa, anzi: non è stata nemmeno giocata. Se siete arrivati a leggere fin qui, avrete capito che quello della vendita della “cassa” è un finto bersaglio: quello grosso (si fa per dire, ma sono comunque storia e milioni) è la Fondazione che, isolata e silente, è probabilmente destinata a perdere l’aggancio con una banca. Nel frattempo, ha già perso quello con lo Stato (che la ignora) e si deve allenare a un futuro da pro loco, magari di lusso, con tanto di bel palazzo e collezioni d’arte. Speriamo non troppo povera.