In città si discute animatamente del Dante barbuto di autore anonimo, “scoperto” in Comune. Prima di affrontare nuovamente l’argomento cosa c’è di meglio di una bella passeggiata fra i vicoli di Orvieto. E proprio nei pressi di un luogo simbolico della città ecco che da lontano, con passo lento ma deciso, s’avvicina Alberto de’ Ricciotti, esperto d’arte e per decenni frequentatore dei palazzi della politica. Passeggia lungo via dei Muffati, già via dei Beffati, proprio alle spalle di Palazzo Coelli sede della Fondazione CRO. Si accorge troppo tardi del pericolo che rappresenta l’incontro con un giornalista, inevitabile incrociarsi. Un leggero inchino come saluto e qualche veloce battuta su Fondazione e via dei Beffati, così come era stata denominata in origine via dei Muffati dove ci troviamo. De’ Ricciotti tenta invano di evitare con cura le parole Dante e barba ma dura poco. D’improvviso il fiume in piena irrompe fragoroso, “il Dante barbuto, ma quale mistero. Tutti i sindaci sapevano dell’esistenza e addirittura ai tempi di Masnada all’azienda del Turismo di Orvieto, il quadro fu utilizzato all’interno di un depliant promozionale. E poi la sciocchezza della barba posticcia, ma via, non scherziamo. La prima delusione arriverà sicuramente dalla datazione del quadro…”. Stuzzica e allora non resta che raccogliere la sfida e iniziare a domandare.
Parliamo di arte, simboli e politica, ma andiamo con ordine. Il primo mistero riguarda l’ubicazione del “Dante barbuto”. Da dove viene e come è arrivato lì nello studio del sindaco?
Il quadro è di proprietà del Comune da tempo, direi. Non ne ho mai trovato traccia ad esempio nell’inventario Gualterio, risalente al ‘700. Probabilmente sarà di epoca leggermente successiva. Per lo stile si potrebbe datare intorno alla fine del ‘700 anche se la tela è più antica, ma non è una cosa strana questa. Tante volte gli artisti riciclavano vecchie tele, magari dipingendo sopra altre opere ritenute minori, o più volgarmente croste. Sicuramente dal secondo dopoguerra l’opera è sempre stata nell’ufficio del segretario comunale, dove ora si trova la segreteria del sindaco. A proposito questa figura fu negata al sindaco Giulietti, ma poi approvata con l’arrivo di Franco Raimondo Barbabella.
Cerchiamo di non divagare, per ora e andiamo avanti con i traslochi…
Allora finché c’è stato come segretario Romagnoli, Il Dante non si è mai mosso dalla sua stanza. Con l’avvento di Capuano l’ufficio del segretario comunale fu restaurato e il quadro è stato spostato. Nel frattempo a guidare il comune era arrivato il giovane Franco Raimondo Barbabella e poco dopo fu istituita la figura del segretario del Sindaco nella persona di Evangelista Dragoni e il Dante finì proprio lì. Solo in epoca successiva approdò nella stanza del sindaco ma non subito nell’attuale sistemazione. Il Dante barbuto fu spostato di parete in parete, complice anche il restauro più profondo del Palazzo Comunale.
Certo è un quadro misterioso e simbolico…
Sì, ma vorrei sommessamente ricordare come la collezione di quadri del comune è tutta piuttosto interessante. Ad esempio, visto che si sta parlando di anniversari, sempre nello studio del sindaco, se la memoria non m’inganna, c’è una tela che raffigura Luigi Mancinelli con un libro nelle mani, non uno qualsiasi perché sul dorso dello stesso appare la scritta Wagner e Mancinelli era un wagneriano convinto. insomma, è un quadro che vuole simboleggiare il forte legame artistico tra Mancinelli e Wagner. Non possiamo poi non ricordare papi e vescovi ospitati nella sala grande antistante l’aula consiliare. Per tornare alla prima domanda cioè all’ubicazione, Bisogna ricordare che ogni sindaco può disporre e sistemare le opere d’arte in possesso del comune come vuole e quindi non è poi così facile ricostruire tutti i passaggi e tutti gli spostamenti delle varie opere in alcuni casi, ricostruirne la provenienza. Però non parlerei di mistero e ancor meno di “scoperta”. Del Dante barbuto si sapeva, tanto che ai tempi di Masnada quando Orvieto aveva la sua azienda di promozione turistica, fu inserito in un depliant di presentazione della città. Nel recente passato, poi, il sindaco Concina, ottimo pianista e conoscitore d’arte, lo fece restaurare.
Quindi la collezione di quadri del Comune ha un certo valore, ma allora perché non trovare lo spazio per una pinacoteca?
Ci si è pensato, anzi più volte e con tante idee, ma non si è concretizzato alcun progetto. Una prima idea fu quella di completare la parte mancante del Palazzo comunale con una struttura in vetro e acciaio, una sorta di “nuvola” alla Fuksas. Poi fu la volta del Palazzo dei Sette dove un sala è denominata “Valentini”, artista-simbolo della città moderna. Lì doveva sorgere questa benedetta pinacoteca, ma anche in questo caso poi non se ne fece nulla. Allora si tornò in Comune. L’ultimo progetto che io ricordi era piuttosto ambizioso e funzionale. Tutto doveva passare dall’acquisto di Palazzo Menichetti, la creazione di un “salone del terrazzo” e al quarto piano, dove ora sono gli uffici dell’urbanistica, doveva sorgere la pinacoteca proprio lì dove c’erano affreschi sul soffitto, in parte addirittura intonacati. Ma niente da fare, arrivò anche una causa giudiziaria a bloccare tutto. Oggi di pinacoteca neanche si parla più.
Oltre che storico dell’arte lei è stato anche un uomo politico, ci può descrivere simbolicamente i sindaci che meglio ha conosciuto?
Inizierei con il sindaco Torroni. Era presente in comune una o due volte alla settimana mentre per il lavoro quotidiano c’erano gli assessori. Giulietti cambiò ritmo; era sempre in comune, o meglio sempre a disposizione del comune, fra la gente, senza timori. Con Barbabella, invece, l’istituzione veniva prima di tutto Abbiamo già detto della figura del segretario del sindaco che faceva da filtro e poi nello studio riceveva alla scrivania. Sempre con Barbabella la collezione d’arte del Comune si è arricchita del primo merletto donato da Gemerei-Pettinelli. C’era raffigurato il rosone del Duomo opera dell’Orcagna. L’arrivo di Casasole ha segnato un cambiamento di metodo piuttosto marcato. La simbologia era quella del Comune con la “porta aperta” con i tavoli pieni di documenti e sedie sempre pronte per chi avesse voluto discutere, parlare, confrontarsi e progettare con sindaco e assessori. L’ultimo di cui ho un ricordo diretto è Cimicchi con il quale si chiude l’era della legge speciale. Restiamo sempre nella simbologia, ecco è il primo cittadino che ha restaurato Il Palazzo Comunale e quindi la sala del consiglio e lo studio del sindaco.
Le donazioni Geremei-Pettinelli sono dunque importanti?
Importanti e simboliche. Dopo la prima donazione, è arrivato il ricamo che rappresenta le “fatiche di Sisifo” con il merletto in filo d’irlanda recante l’ammonimento “respice finem” , letteralmente “guardando alla fine”. Nelle varie donazioni la signora era assistita dal nipote, molto noto in città per il suo lavoro alla Farmacia Comunale, Adolfo Geremei. E qui arriva il colpo di scena, molto probabilmente anche il famoso Dante barbuto è appartenuto proprio alla signora che poi lo ha donato al Comune.
Lei mi parla sempre di simboli, dunque a Orvieto contano?
Certamente! Orvieto è la città dei simboli, Veri o presunti che siano. ogni angolo nasconde un po’ di storia. Ad esempio la scrivania dove siede il primo cittadino è stata utilizzata anche dal Duce, durante la sua visita in città, per firmare alcuni documenti urgenti. Come dicevo ci sono anche i falsi miti-simboli come quello che vuole l’oca, presente nello stemma comunale, rappresentante il potere del Popolo mentre in realtà si deve far risalire addirittura agli etruschi. Quello che meraviglia, che più lascia di stucco è un altro importante simbolo della città maltrattato e bistrattato.
E di quale simbolo si tratta?
Mentre c’è chi si preoccupa del monumento ai caduti che ora viene tirato a lucido, c’è un luogo importante dimenticato da tutti. Intendo lo scandalo della Chiesa di San Francesco. A due passi dal Duomo, dal simbolo della città, San Francesco è chiusa nonostante sia un pezzo di storia del comune e proprietà del Comune. E’ il sacrario degli orvietani, l’altare degli eroi orvietani e l’unica idea, veramente strampalata, che è venuta a qualcuno è stata quella di trasformarla, soppalcandola internamente, in museo dei costumi del corteo storico. Bisognerebbe semplicemente riaprirla anche se è stata, negli anni, oggetto di ruberie varie. Per fortuna è stata salvata la tela, ora in comune, di Santa Lucia che salva Orvieto dalla peste.
Ha in mente altri simboli un po’ dimenticati?
Non so, ma ai tempi dei sindaci che ho citato, sicuramente fino a Concina, sulla scrivania del sindaco c’era un’opera di argenteria interessante, con boccette per inchiostri e tutto il necessario per la scrittura di un tempo. Era tutto finemente cesellato e sotto la vaschetta centrale c’era inciso il simbolo del Comune. E’ stato sicuramente commissionato dall’amministrazione per un evento, un anniversario. Lo voglio ricordare perché gli stessi addetti alle pulizie lo trattavano con estrema cura, lo lucidavano e lo sistemavano proprio come si deve trattare un simbolo.
Per finire torniamo al nostro “Dante barbuto”…
E’ un’operazione di marketing azzeccata, indubbiamente. I 700 anni vengono una volta sola, ma le celebrazioni non possono essere incentrate sulla barba di Dante. Orvieto è citata nel VI Canto del Purgatorio e poi il Duomo. E per quanto riguarda il quadro non parlerei di scoperta. Come ho detto i sindaci del passato sapevano benissimo della sua esistenza e lo hanno trattato con la giusta importanza. Probabilmente, come troppo spesso avviene in Italia, siamo così circondati di bellezza che ce ne dimentichiamo, o meglio siamo abituati a conviverci e lo riteniamo normale. Se c’è un peccato è stato proprio questo, cioè di non aver dato il giusto rilievo ad un’opera che raffigura Dante così come descritto da Boccaccio, considerato il suo primo biografo, in maniera non coincidente come la vulgata che lo vuole con il naso aquilino, il meno pronunciato e senza barba. Qui la barba c’è sempre stata. Il timore è che il “Dante barbuto” torni ad essere un’opera che sta nello studio del sindaco appena verrà confermato, come già sembrerebbe da un primo esame, che il quadro è stato dipinto a fine ‘700 su un tela più antica, altrettanto sicuramente.
L’intervista è chiaramente di fantasia ma allo stesso tempo reale. Si traccia un profilo di una città che viene rapita “dalla hit del momento” dimenticando i tesori inestimabili, i simboli di un passato remoto e meno remoto, di grande potere e ricchezza, di estro, maestria e ingegno. Andiamo a cercare l’evento quando lo abbiamo ogni giorno sotto i nostri occhi. E’ giusto valorizzare ogni particolarità, ogni opera, ma senza mai mettere all’angolo i capolavori da cui si deve sempre partire, ogni volta.