I fatti: un forte incremento dei dividenti registrati a livello globale, gli indici azionari sui massimi – ma il NASDAQ, la borsa dei tecnologici USA, in calo giornaliero di oltre il 2% il 2 agosto, massima flessione da due mesi, dopo il downgrade di Fitch alla qualità del debito statunitense – una politica monetaria ovunque restrittiva e una persistente inflazione.
Il dubbio: questi aspetti sono connessi? E’ pensabile che l’inflazione sia prioritariamente spinta dai profitti la cui entità alimenta i dividendi e, per tale via, sostiene i corsi azionari?
La teoria: è probabile che si abbia inflazione da profitti quando si sia sperimentato un aumento del potere di mercato delle imprese, cioè una forma di concorrenzialità più blanda e/o si sia in presenza di una minore elasticità della domanda rispetto al prezzo; in tali casi, il profitto contiene una componente di reddito da monopolio, questo fu formalizzato rigorosamente da Kalecki prima e in seguito, con riferimento alle economie mature, da Baran e Sweezy.
Le cause: in primo luogo, nei periodi di crisi si manifesta una tendenza alla concentrazione delle imprese, quelle in difficoltà escono dal mercato e/o vengono inglobate da quelle più redditive. In secondo luogo, si può dare il caso che, in alcuni settori, l’elasticità della domanda al prezzo sia divenuta bassa; quest’ultimo aspetto s’induce quando a seguito di un processo continuo di aumento di prezzo un bene questo viene sostituito nel paniere del consumo ma mentre questo avviene, la sua sostituzione con i succedanei è sempre più difficile, finché la sua domanda non diviene praticamente inelastica al prezzo. Tutte queste caratteristiche dell’habitat faranno crescere i margini (per una ricca rassegna sull’argomento cfr. D. Lazzaretti, “Appropriazione del surplus”, in Micropolis, Mensile allegato al Manifesto del 02/08/2023).
I dati: Glover et al. (“How much have record corporate profits contributed to recent inflation?”, 2023) inferiscono che negli USA, nel 2021, il contributo del profitto alla dinamica dell’inflazione è stato elevato (circa il 50%), nel 2022 invece tale impatto è diminuito. Per quanto attiene all’Europa, da uno studio della Confindustria (cfr. Il Sole 24 Ore del 28/05/23) emerge che vi sia stato un aumento dei profitti (oltre +8%), con una punta nei settori energetici-estrattivi (oltre 43%). In Italia il fenomeno è meno netto: i profitti sono saliti nel 2022 rispetto al 2021 del 3,5%. La BCE, nel suo ultimo Bollettino economico, ritiene che “nel complesso, i profitti unitari sono cresciuti fortemente negli ultimi trimestri e hanno contribuito in modo visibile alle pressioni sui prezzi interni dell’area dell’euro”; tale Banca, in un comunicato del 27 giugno, auspica che “le imprese assorbano l’incremento dei costi del lavoro nei margini di profitto”.
Essendo la risposta delle banche centrali necessariamente uniforme in tutte le nazioni di una stessa area valutaria, rilevano meno gli “effetti regionali”, ad esempio l’Italia come peculiarità, rispetto a quelli globali cioè riferiti all’intera area. La questione è se mediamente il ruolo dei margini di profitto sia rilevante nell’attuale processo inflazionistico: tutte le analisi mostrano che si può rispondere in maniera affermativa, tanto da poter parlare di Greedflation, cioè inflazione da avidità.
Questo apre la questione dei rimedi: che fare?
Se l’inflazione ha le caratteristiche di essere tirata dai profitti, è molto difficile riportarla sotto controllo solo con gli aumenti del tasso di interesse. Quando l’inflazione nasce dal lato dell’offerta per ricondurla al livello desiderato l’entità del rialzo dei tassi potrebbe essere di livello tale da indurre un costo, in termini di produzione e occupazione, molto elevato. Inoltre, in alcuni casi, la restrizione sui tassi può addirittura essere controproducente: le problematiche di flessione dell’offerta, alla radice dell’inflazione, potrebbero essere mitigate con investimenti che però risultano più onerosi con tassi più elevati, per cui almeno in parte non verranno posti in essere. Inoltre, l’impatto dei tassi può essere devastante rispetto al merito di credito delle imprese e delle famiglie indebitate.
Da ultimo, con le principali economia caratterizzate da un rapporto debito/PIL su livelli sperimentati solo per finanziare le guerre, ma il COVID da questo punto di vista è stato un conflitto, il rialzo dei tassi mina la solvibilità degli stati: per gli USA, ad esempio, quest’anno gli interessi sul debito sono aumentati del 25% circa rispetto al 2022, questo ha comportato il declassamento del merito di credito degli Stati Uniti da parte dell’agenzia di rating Fitch; per le stesse ragioni, neppure i paesi dell’Euroarea possono dirsi al sicuro da questa eventualità (Cfr. A. Graziani “Colpo agli USA ma l’Europa non può dirsi al sicuro”, Il Sole 24 Ore del 3.08.23).
Quindi, sia per l’efficacia dello strumento, sia per gli impatti sui soggetti indebitanti, in un habitat da inflazione da profitti sembra utile prevedere anche una politica dei redditi, nella cui ottica le imprese s’impegnino a tenere fermi o meglio ridurre i margini. I governi dovrebbero, da un lato, accrescere l’efficacia delle politiche pro-concorrenziali (per esempio rafforzando i poteri delle autorità antitrust), dall’altro, prevedere aliquote Iva inversamente correlate ai costi di produzione nei settori critici per l’innesco dell’inflazione (energia, carburanti e prodotti alimentari).
Per quanto riguarda l’impegno delle imprese circa i prezzi di vendita, si è aperta una fase dialettica tra il Ministero delle imprese e del made in Italy (Mimit) e le associazioni dei distributori/produttori, per pervenire a una forma di contenimento dei prezzi, almeno sul paniere definito “carrello della spesa”: cioè l’insieme dei beni alimentari, per la cura della casa, l’igiene personale e i prodotti per l’infanzia; le aziende che aderiranno dovranno essere comunicate dai rappresentati delle imprese entro il 15 settembre (Cfr. C. Fotina, “Inflazione, intesa contro i rincari volontari e con limiti a prodotti, Il Sole 24 Ore del 29.07.2023). Tuttavia, restano molti nodi da sciogliere, ad esempio il coinvolgimento negli accordi anche delle imprese delle altre fasi della filiera, in primis le materie prime e il packaging, senza il quale l’approccio perderebbe di rilevanza.
Politica monetaria come unica arma contro l’inflazione, specie se da profitti? Come sapete ad ogni domanda io rispondo sempre: “Preferirei di no”.