Cittadinanza Territorio Sviluppo ha presentato un interessante report sulla situazione delle imprese dell’orvietano e di Orvieto. Ne emerge un ritratto a tinte fosche soprattutto alla luce delle crisi che si è andata a innestare sulla precedente dovuta alla pandemia. Ci ha illustrato la situazione Paolo Fratini, commercialista, docente a contratto presso il dipartimento di economia all’Università di Perugia, membro della commissione “crisi di impresa”, con numeri che non lasciano spazio a interpretazioni. Sicuramente Orvieto non è l’eccezione negativa in un quadro comunque critico ma la struttura imprenditoriale risulta essere piuttosto fragile e indirizzata verso comparti che sono fortemente esposti alla crisi internazionale avviatasi già prima dello scoppio della guerra in Ucraina e che si è palesata in tutta la sua drammaticità in questi ultimi mesi.
Il 2020 è stato un anno terribile per l’economia italiana e non solo. Come si è comportato il sistema imprenditoriale orvietano che avete esaminato nel vostro rapporto?
E’ sempre difficile analizzare ed interpretare dati caratterizzati ed influenzati dalla eccezionalità degli eventi che li hanno condizionati, i risultati dell’anno 2020 ove fosse necessario specificarlo hanno determinato nella loro eccezionalità la necessità di molteplici interventi di sostegno, ex post rivelatisi spesso insufficienti, oltre alla “sterilizzazione delle perdite” laddove il legislatore, ha sancito che le società di capitali possono operare con un patrimonio netto negativo proprio a fronte della eccezionalità degli eventi. Dal punto di vista economico il dato più preoccupante è quello riferito alla redditività: sul campione, comprensivo anche delle aziende a maggiore impatto, il margine operativo lordo (MOL) rapportato al fatturato è praticamente nullo con una flessione di oltre l80%; l’analogo dato riferito alle imprese non orvietane è risulta pari al 7,8%. Nel dettaglio il dato è in gran parte condizionato dal risultato economico di Vetrya il cui risultato, considerate le dimensioni dell’azienda, ha condizionato il dato negativo non solo dell’orvietano ma dell’intera area, trascinando addirittura in segno negativo il valore assoluto dell’utile netto.
Quindi si può affermare che le aziende orvietane hanno sofferto in maniera più marcata le problematiche legate alla pandemia?
Sicuramente la capacità delle imprese orvietane di creare margini continua a risultate significativamente peggiore di quelle delle aziende non orvietane. I riflessi si notano anche sulla situazione patrimoniale, infatti dall’analisi svolta sul campione si evidenzia che queste hanno avuto un risultato netto negativo della complessiva gestione pari a 9 milioni a fronte di un risultato positivo del 2019 di oltre 2 milioni dell’anno precedente con una variazione negativa monstre del 438,82%. Proprio a conferma di questo, l’indicatore di redditività aziendale che mette in rapporto il margine operativo lordo e l’attivo patrimoniale, evidenzia una variazione percentuale negativa pari al 49,50%.
Quindi le aziende, in particolare le Pmi, hanno perso valore?
Analizzando il patrimonio netto altresì definito “capitale proprio” o “mezzi propri” sempre nello stesso arco temporale, si osserva un leggero incremento pari al 4,59% (115 milioni del 2019 contro 120 milioni del 2020), al contrario di quanto accade nelle PMI Italiane che nel corso del 2020 hanno vissuto una contrazione della loro capitalizzazione, che ha riguardato soprattutto il Centro-Italia con una variazione negativa pari a 8,3%. (Cfr. Confindustria-Cerved, “Rapporto Regionale PMI 2021”, pag. 76.). Tale incremento però deve essere lettoalla luce delle rivalutazioni delle immobilizzazioni. Inoltre come evidenziato dal margine di struttura primario e dall’indice di indipendenza finanziaria l’incrementonon permette comunque alle aziende di riuscire a coprire il proprio attivo immobilizzato (-2.45%) e avere un adeguato grado di solidità patrimoniale (-2.44%).
Ma ci sarà qualche dato che permette di guardare al futuro con un po’ di ottimismo?
Un dato positivo potrebbe essere rappresentato dall’incremento dell’attivo circolante, per un valore di 203 milioni contro i 188 dell’anno precedente, ciò nonostante tale aumento non corrisponde ad un proporzionale incremento dei ricavi, il che potrebbe indicare la possibile presenza di anomalie nell’andamento delle scorte oppure nell’incasso dei crediti, o semplicemente la “persistenza” di attivi patrimoniali ante periodo Covid.
E per quanto riguarda l’indebitamento della PMI?
Il grado d’indebitamento delle imprese del panel rimarca un valore minore per il 2020, pari a 0,71 rispetto all’anno precedente, 0,74 delineando aziende maggiormente indebitate. I debiti consolidati a medio-lungo termine sono aumentati a 54 milioni dai 33 milioni del 2019. Bisogna infatti sempre considerare la specificità del 2020 quando molte imprese hanno fatto ricorso ai “finanziamenti covid”, cioè quei finanziamenti con garanzia statale erogati per far fronte al periodo di inattività e al calo del fatturato. Si tratta perciò di finanziamenti ai quali non hanno corrisposto nuovi investimenti, come è nella natura dei finanziamenti a medio-lungo termine nella ordinaria dinamica aziendale. Tuttavia il dato non sembra troppo preoccupante in quanto con poco più di due anni sia è in grado di rimborsare tale debito. Raffrontando il dato con l’Italia e l’area geografica di competenza si evidenzia come nel 2020 ci sia stato un deciso aumento dell’indebitamento finanziario sul 2019 dell’8,6%, tendenza che continua dal 2015. Nel centro-Italia il dato è ancora più alto con un netto +10,3% mentre nell’orvietano, ricordiamolo è dell’8,90%, praticamente in linea con il dato nazionale.
Indubbiamente il 2020 è stato l’anno più pesante della pandemia e ha indebolito le aziende. Come hanno cercato di reagire e con quali strumenti?
Effettivamente il 2020 è stato l’anno che ha rivelato la fase più acuta anche nelle conseguenze a danno delle attività economiche. Le imprese che abbiamo esaminato, oltre alle evidenti difficoltà di redditività hanno dovuto affrontare la pandemia che la ha inesorabilmente indebolite. Come hanno reagito? Hanno provato a mitigare gli effetti. Alcune imprese campione si sono servite della cosiddetta “rivalutazione d’impresa”, ossia la possibilità offerta in via straordinaria dalla norma, di incrementare il valore dei beni iscritti in bilancio. Per questo l’incremento degli investimenti lordi, e del patrimonio netto, è in buona parte solo apparente perché è il risultato di una rivalutazione contabile e non corrisponde a reali nuovi investimenti.
Può fare un esempio concreto per far comprendere meglio ai lettori?
Certamente, la rivalutazione effettuate tra le imprese che hanno sede nel Comune di Orvieto sono state pari a 10,76 milioni di euro; questo ha fatto sì che si verificasse un aumento delle immobilizzazioni senza la presenza di nuovi investimenti e un aumento del patrimonio netto senza un correlato aumento di capitale. Quindi questo ha fatto sì che si generassero degli indici leggermente favorevoli rispetto alla situazione depurata dalle rivalutazioni che invece risulta più gravosa. A titolo esemplificativo si può notare come il patrimonio netto cambi da una variazione positiva del 4,59%, dato dalla differenza dei valori degli anni 2019 e 2020, ad una variazione negativa pari al 4.60% dello stesso periodo al netto delle rivalutazioni.
Quali sono le cause della scarsa redditività e degli scarsi investimenti?
Da quanto emerge dall’analisi si può ipotizzare che la politica gestionale maggiormente utilizzata per mantenere quote di mercato, sia quella di preferire la leva del contenimento dei prezzi di vendita rispetto a quella della redditività dei fattori di produzione. Si può ipotizzare quindi una maggiore staticità e una scarsa propensione all’innovazione dei fattori produttivi. Altro aspetto importante, che solo una analisi più approfondita potrebbe aiutare a definire una concausa oppure un effetto della scarsa redditività, è rappresentato dalla scarsa propensione a nuovi investimenti. Questo può essere come detto una concausa della scarsa redditività, ma potrebbe anche esserne un effetto dal momento che la bassa redditività non supporterebbe adeguatamente nuovi investimenti.