Era il 23 gennaio del 1980 quando presero il via i lavori di consolidamento della rupe di Orvieto grazie ad una legge speciale, da quel momento divenuta ad Orvieto la “legge speciale” per antonomasia, che stanziò inizialmente 300 miliardi di lire per i primi sei anni e che era destinata a diventare uno spartiacque nella vita pubblica della città dal dopoguerra fino ad oggi. Il profondo ed innovativo significato di quella operazione politicamente corale fu quello di dar vita al cosiddetto “Progetto Orvieto”, ovvero la grande intuizione di utilizzare i fondi pubblici non solo per consolidare il masso tufaceo, ma anche per ristrutturare i più importanti immobili di pregio del centro storico sul presupposto che ognuno di essi, ben gestito, avrebbe poi dovuto attivare un sistema economico incentrato sulla cultura in grado di far decollare Orvieto. Era il concetto dei famosi “sottosistemi”. Tra gennaio e febbraio del 1981 un importante convegno sul tema “Orvieto: i luoghi della cultura” lanciò questa ambiziosa visione e fu uno dei momenti in cui la città riuscì a focalizzare efficaci energie intellettuali, forza politica, positività e rara unitarietà di intenti intorno ad un obiettivo condiviso e ambizioso. Il fatto che se ne parli ancora oggi a distanza di 44 anni la dice già lunga sulla eccezionalità di quella felice circostanza. A questi temi è dedicato il libro di Paolo Borrello, edito da Intermedia Edizioni,”Il Progetto Orvieto ormai dimenticato” che offre una preziosa analisi per riflettere su argomenti di stringente attualità oltre che per ricostruire con importanti dettagli quel contesto ormai consegnato alla storia.
Far funzionare le cose
Borrello infatti non si limita ad offrire una ricostruzione dettagliata di quel particolare momento, ma espone anche una analisi su quella parte del Progetto Orvieto con la quale la città ha drammaticamente a che a fare anche oggi, ovvero la gestione dei prestigiosi immobili restituiti alla città e alla loro complicata e quasi mai brillante gestione. Si tratta del teatro Mancinelli, della torre del Moro, del palazzo dei congressi, della sala del Carmine, della realizzazione della nuova biblioteca nel complesso di san Francesco e della ristrutturazione dell’ex convento di san Giovanni. Gli elementi interessanti sono due, il primo è quello relativo alla complessità di trovare gestione adeguate per questi beni una volta rimessi perfettamente in uso e l’altro riguarda alcuni obiettivi del Progetto Orvieto che sono stati completamente abbandonati e dimenticati ma di cui si sente oggi fortissima necessità a causa dell’evoluzione e spesso della involuzione che ha vissuto nel frattempo la città. Sul primo versante, non c’è dubbio che la “fase due” del Progetto Orvieto ovvero quella di far funzionare bene gli immobili recuperati per creare nuova economia sia stato un flop colossale. Borrello passa in rassegna l’alternarsi di gestione comunale e gestione privata (Orvieto convention bureau) del palazzo dei congressi, concludendo che non è stata mai trovata la formula giusta seppur con qualche fase positiva. Oggi si persegue l’idea di una gestione unitaria di teatro, palazzo dei congressi e ufficio turistico e si spera che i frutti siano soddisfacenti, ma indubbiamente il turismo congressuale è una brutta bestia che Orvieto non è mai riuscita davvero ad addomesticare, soprattutto per l’endemica mancanza di alberghi in grado di sostenere con adeguati (e non sparpagliati) posti letto quel progetto, lanciato nell’era pre tangentopoli quando cioè solo le aziende farmaceutiche e i carrozzoni della politica tenevano in piedi i centri congressi in mezza Italia. Adesso che l’attività congressuale ha cambiato pelle per l’ennesima volta e si focalizza al momento sul business dei corsi di aggiornamento tenuti dagli ordini professionale, il palazzo del Capitano del Popolo evidenzia altre sue lacune perché non è in grado di offrire sale di dimensioni ridotte come quelle richieste dal mercato. Sottigliezze a parte e tralasciando l’incapacità generalizzata di trasformare il palazzo dei Sette in quella sede espositiva per ospitare le mostre d’arte che qui non sono mai colpevolmente decollate, il concetto di fondo è che la gestione di questi beni non ha mai fatto ingranare la quinta al “motore Orvieto” come speravamo quattro decenni fa. Per quanto riguarda il teatro poi, si può anche considerare controversa la decisione del sindaco Tardani di mettere in liquidazione la TeMa, ma la verità è che anche quel modello gestionale era arrivato al capolinea. Non diversamente dal macigno di buffi con il quale il sindaco Concina si ritrovò tra le mani nel giugno 2009 il Centro studi dopo tanti anni di gestione sinistra, anche la TeMa, priva di patrimonializzazione e come unica garanzia bancaria la convenzione comunale, era appesantita da troppi debiti e ormai bollita. La vera questione è dunque come far funzionare ciò che abbiamo. Un interrogativo attuale oggi come all’epoca.
La sensibilità sociale e le intuizioni dimenticate
Il Progetto Orvieto contemplava interventi di modernizzazione del turismo e di interventi sociali che oggi stanno tornando di scottante attualità a dimostrazione di come quella fu davvero una stagione politicamente felice, perlomeno nel comprendere ciò che già ad inizio degli anni Ottanta si muoveva nella società locale e come prospettiva futura. Un progetto prevedeva, ad esempio, interventi di edilizia sociale con una ristrutturazione del complesso di sant’Anna da destinare a “casa albergo” per anziani autosufficienti. Si poneva poi l’esigenza di dotare la città ed il comprensorio di una struttura “in grado di ospitare a prezzi contenuti giovani o gruppi per esigenze turistiche, ma anche di studio e di ricerca”. Insomma una sorta di ostello come quelli che stanno sorgendo in questi anni in vari territori della Tuscia per non andare troppo lontano. Il Progetto Orvieto delineava anche quelle politiche che oggi si chiamano di housing sociale e che allora venivano declinati come interventi di finanza pubblica a sostegno delle imprese costruttrici per sostenere in convenzione la realizzazione e la ristrutturazione di immobili con lo scopo di favorire la residenzialità e contrastare lo spopolamento. Nei primi anni Ottanta avevamo insomma le idee chiarissime, peccato essersi persi per strada