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L’illusione di essere democrazia

Le elezioni presidenziali turche hanno portato ad un risultato storico per quella che è la storia del paese degli ultimi 20 anni, che hanno visto dominare la scena in maniera incontrastata a Recep Erdogan, come Primo Ministro e successivamente come Presidente.
Un presidente che, in virtù del suo autoritarismo e dello scarso rispetto per le libertà individuali, nonché per la scarsa applicazione delle regole della democrazia, i suoi concittadini non esitano a definire “Reis”, come si fa in genere con i dittatori di quell’area geografica di mondo.
Chi sta dando del filo da torcere al sultano di Ankara non è certo un politico di “primo pelo”, ma è il 75enne leader del principale partito di opposizione, il CHP, Partito Popolare  Repubblicano, Kemal Kilicdaroglu, che guida una coalizione composta da 6 partiti uniti nel tentativo di sconfiggere il leader nazionalista che governa la Turchia con il pugno duro ormai da troppo tempo.
Ancora prima che la denuncia del mancato rispetto dei diritti umani e dei principi elementari della democrazie, l’arma utilizzata dalle opposizioni in questa elezione è quella della cipolla. Il bulbo, simbolo della cucina turca, il cui prezzo è salito alle stelle nei mercati delle città ottomane è il simbolo di una inflazione che corre nel paese e che, salita alle stelle con un picco negli ultimi dodici mesi del 112%, questa volta rischia di mettere in crisi il sistema erdoganiano che sembrava inattaccabile. Sicuramente a far presa sull’elettorato turco è anche la figura mite di Kilicdaroglu, la cui fonte di ispirazione è molto più vicina alla socialdemocrazia laica ed illuminata di Ataturk e quindi distante dall’islamismo quasi fondamentalista di Erdogan. Lo stesso filo atlantismo ed europeismo di Kilicdaroglu lo rende più credibile agli occhi dell’Occidente così come la sua presa di distanza dalla Russia nel conflitto in Ucraina.
Il risultato di domenica scorsa vede ancora in vantaggio Erdogan al 49,51% nei confronti di Kilicdaroglu al 44,89 % e con un terzo incomodo, l’ultranazionalista Sinan Ogan, che con il suo 5% pari a tre milioni di voti può fare inaspettatamente da ago della bilancia e che, ovviamente, porterà i suoi voti al “miglior offerente”.

L’invocazione di Jan Petersen, capo della missione dell’Osce in Europa, che ha monitorato l’andamento delle elezioni e che chiede più trasparenza nei conteggi del voto al secondo turno, non lascia presagire nulla di buono, vista anche la sua denuncia riguardo una copertura mediatica che ha favorito, durante la campagna e nella giornata elettorale, Erdogan, dato per vincitore ad urne ancora aperte in barba ai principi del silenzio elettorale e del rispetto del voto. Quale che sia l’esito del voto stesso del prossimo 28 maggio quello che è certo è che quanto sta accadendo in Turchia finalmente assomiglia a qualcosa che genera quantomeno l’illusione di essere in una democrazia compiuta e realizzata.
Di certo la missione per Kilicdaroglu sembra impossibile, viste le spinte fondamentaliste e nazionaliste che portano a convergere Erdogan e Ogan, ma in ogni caso essere arrivati al ballottaggio per i democratici, vasi di coccio tra i due vasi di ferro è già un risultato considerevole dal quale ripartire, con una opposizione che non dovrà mollare la presa viste le derive autoritarie del Reis.




Francia, ingiustizia è fatta!

La decisione della magistratura francese, arrivata con la  sentenza della Cassazione che nega definitivamente l’estradizione in Italia degli ex brigatisti rossi accusati di efferati omicidi, lascia attoniti e sbigottiti soprattutto pensando al dolore dei parenti delle vittime di quegli Anni di Piombo che hanno lasciato un segno indelebile nella storia del nostro paese.
La piaga del terrorismo, tanto rosso quanto nero, negli anni 70 ed 80 in Italia è stata causa di drammi familiari e cicatrici indelebili nel corpo e nell’anima di chi ha subito lutti, di chi ha perso un marito o non ha avuto la possibilità di crescere con un papà in nome di una “lotta armata“ senza senso e che non è approdata a nulla se non seminare morti e tragedie.
Non può valere, se non riferendosi alla storia di quel Paese, la spiegazione data dall’organo di cassazione francese riguardo un iter, avviato dal governo italiano il 20 gennaio 2020 e a questo punto definitivamente arrivato a conclusione in maniera così amara per i familiari delle vittime.
Nella sentenza si dice che i rifugiati in Francia si sono costruiti da anni una “situazione familiare stabile e l’estradizione avrebbe provocato un danno alla loro vita privata e familiare”, non tenendo minimamente in considerazione chi invece questa vita privata e familiare l’ha vista distrutta da questi assassini. È questa la “dottrina Mitterrand” enunciata dal presidente francese nel 1985 riguardo le politiche al diritto di asilo concesso in Francia a chi si era macchiato di “ atti di natura violenta ma di ispirazione politica“ contro qualunque Stato purché non diretti contro quello francese ed in questo caso adottata dalla magistratura transalpina integralmente.
Adottata forse perché impossibilitata a non metterla in pratica, nel rispetto di una concezione storica, filosofica di stampo ultra liberista se pur negata da comportamenti discutibili antidemocratici all’epoca del periodo coloniale.
La stessa motivazione data sulla distanza temporale non ragionevole fra quei crimini e la procedura in corso è decisamente labile e non può’ bastare la teoria della convenzione europea sui diritti dell’uomo riguardo il rispetto delle nuove vite che si deve agli arrestati in quanto ormai con famiglie e figli francesi a giustificare una tale decisione.
Non si può non essere solidali con le famiglie vittime del terrorismo soprattutto pensando a quanta sofferenza ci sia per loro nel constatare che da parte dei terroristi in questi anni non c’è mai stata una parola di ravvedimento o di pentimento e la reazione a questa sentenza, avvenuta con dichiarazioni di giubilo da parte di chi ha fatto parte delle organizzazioni del terrore, non fa che aumentare il malessere per questa decisione della giustizia francese.
Non si tratta di sete di vendetta ma semplicemente di rendere giustizia a chi è stato assassinato.