La nuova era del virus, sì alla vita “normale” e alle differenze tra cittadini

Siamo nell’era “Omicron” ennesima variante di questo maledetto virus che non ne vuole sapere di andare via e diventare un tranquillo virus parainfluenzale.  Il premier Mario Draghi, intanto, ha perentoriamente escluso nuovi lockdown, anche limitati, la dad e l’allungamento delle vacanze natalizie e super-green pass per i dipendenti pubblici e privati sotto la spinta di una parte della sua stessa maggioranza, leggasi Lega e parte del M5S, unica e non azzeccata concessione alla politica da parte di Draghi.

Il Paese reale però torna a soffrire per alcune limitazioni e divieti resi necessari dall’arrivo della nuova variante.  Mascherine sempre e ovunque, e FFp2 al chiuso, niente cibi e bevande nei cinema e nei teatri, chiusura delle discoteche e delle sale da ballo e poi tamponi a più non posso; un vero e proprio balzello per le famiglie e le imprese e un nuovo clima di paura che sta già riportando in crisi alcuni comparti che faticosamente stavano cercando di risalire la china a partire dal turismo e dall’intrattenimento e spettacolo.  Le amministrazioni locali hanno deciso ancor prima del governo nazionale di annullare feste, veglioni, rappresentazioni varie e poi anche l’esecutivo ha di fatto confermato quanto già deciso a livello territoriale, annullando ogni differenziazione.  In tutta Italia si può uscire, organizzare feste private, partecipare ai cenoni tradizionali nei ristoranti, agli spettacoli e ai concerti, ovviamente nel massimo rispetto delle normative vigenti, ma cum grano salis, ricordano da Palazzo Chigi.

Il Paese che produce e la scienza stanno iniziando, però, a traguardare l’immediato futuro della variante omicron per organizzare il futuro almeno a medio termine e eliminare, salvo catastrofi, questo continuo stop and go che rende difficile anche la minima programmazione finanziaria di qualsiasi impresa, grande, piccola o familiare.  Autorevoli medici stanno spingendo per un forte accorciamento della quarantena per i vaccinati con terza dose, addirittura c’è chi pensa alla totale eliminazione, e un contemporaneo allungamento dei termini per i no-vax duri e puri.  E così il mondo dell’impresa chiede che venga reso obbligatorio il vaccino per raggiungere quell’immunità di gregge e quel livello di sicurezza che si può ottenere solo con una regola rigida e con scarse e giustificate eccezioni.  Si è aperto in maniera vigorosa anche il dibattito sul lockdown per i non vaccinati sullo stile di quanto avvenuto in Germania e Austria e di quanto sta decidendo il Belgio.  Già, il Paese reale ha bisogno di certezze e di socialità in sicurezza e le strade sono semplici, vaccini su larga scala e premialità per chi segue tutte le regole dettate dalla scienza.  Bisogna intendersi anche sul significato di immunità di gregge.  Cosa s’intende?  Semplicemente che il numero massimo di popolazione sia immunizzata e/o messa in sicurezza con il vaccino per salvaguardare chi per motivi seri di salute non può avere accesso a tali cure preventive.  Non si avrà, quindi immunità di gregge fin quando tutti coloro che possono vaccinarsi non lo avranno fatto, questo è ormai assodato e non sperimentale, basti pensare al morbillo o al vaiolo, completamente debellato, o all’antinfluenzale che previene le forme gravi dei virus stagionali.  D’altronde i costi anche per lo Stato iniziano ad essere altissimi.  Gestire una pandemia non è uno scherzo ma se i cittadini provano a fare i furbetti o si mettono di traverso con la laurea acquisita in poche settimane sui social, allora la strada diventa ancora più tortuosa e in salita.    Il premier Draghi ha chiaramente sottolineato che oggi decisione è presa dal governo su base esclusivamente scientifica e proprio da lì viene l’appello all’obbligatorietà del vaccino mentre è più dibattuto il lockdown per i no-vax anche se la maggior parte concorda, anzi c’è chi spinge per attuarlo ora, fino alla riapertura delle scuole per favorire le vaccinazioni dei bambini in particolare e limitare l’ondata della variante omicron già in atto. 

E’ difficile però, politicamente, fare digerire un nuovo “San Silvestro” senza luci, feste, giochi e incontri familiari.  La socialità non può essere compressa per lunghi periodi e allora facciamolo in sicurezza così come consigliato dalla scienza: evitiamo inviti a chi non è vaccinato soprattutto se in presenza di persone fragili, chiediamo il tampone a chi non ha ancora effettuato la dose booster da almeno 15 giorni e poi mascherine quando necessario, evitare baci e abbracci, evitare di bere o mangiare con le stesse stoviglie, arieggiare spesso il locale dove si soggiorna, lavare le mani o disinfettarle.  Solo così si può convivere con il coronavirus senza rinunciare totalmente alla socialità, allo sport, agli spettacoli e alla musica..e sarà così ancora per molto tempo, meglio avere poche regole, chiare che tante con altrettante scappatoie per furbetti di vario genere.




L’associazione PrometeOrvieto, “c’è vita al Casermone!”

Sabato scorso abbiamo assistito ad un incontro pubblico in cui un gruppo di persone, con idee e provenienze politiche e culturali diverse, si è presentato alla città per cercare di dare un contributo al suo sviluppo. Si parla da almeno 20 anni del complesso immobiliare di via Roma, sede della gloriosa Caserma Piave (“il Casermone”), praticamente abbandonato a sé stesso da quando l’Esercito lo ha lasciato. Contrariamente ad altre volte in cui si è discusso tanto, ma si è fatto poco, questo gruppo di persone ha presentato e spiegato un progetto di massima di rifunzionalizzazione della struttura. Il progetto che è stato reso pubblico appare come integrato nella vita della nostra città con un focus su Università per stranieri, formazione professionale ed istruzione superiore che ne garantiscono un equilibrio economico ed una ricaduta positiva sul Pil di Orvieto. È stata anche evidenziato che i 200 milioni di euro di investimento necessari sono reperibili da fonti di finanziamento già individuate. Le competenze di questo gruppo di lavoro appaiono ben diversificate ed in grado di soddisfare tutti gli aspetti e le problematiche inerenti: capacità progettuale e realizzativa, competenza nell’individuazione dei fondi, competenza nella formazione universitaria, competenza amministrativa nella gestione della cosa pubblica. È stato anche distribuito un questionario in cui i partecipanti all’incontro potevano esprimere un loro giudizio e suggerimenti su quanto ipotizzato.

Ovviamente, sarà la solidità del business Plan che permetterà di giudicare concretezza e fattibilità dell’iniziativa. Il Sindaco, contemporaneamente, ha annunciato che ci sono altri progetti in cantiere per “il Casermone”. Ci permettiamo di affermare che sarebbe allora opportuno che anche questi fossero presentati. I tempi, infatti, sono molto stretti poiché entro fine anno devono essere presentate le idee progettuali da consolidare entro giugno dell’anno prossimo per ottenere i fondi necessari. Ci sembra che, dopo tanti anni di sole chiacchiere, si cominci finalmente a parlare di cose concrete con metodica corretta che consenta la partecipazione della città. I tempi stringono, ma soprattutto le opportunità economiche che ci sono non vanno sprecate per correre dietro a personalismi, baruffe e beghe cittadine.

Orvieto deve dimostrare una volta per tutte di saper essere unita per concentrare le forze contro l’innegabile declino che la affligge




La difficile gimkana tra green e super pass. Il giro di vite giusto per non richiudere

Green Pass, ora super green pass, tamponi, scadenze, terza dose, è sempre più un ginepraio la vita ai tempi della pandemia. Intanto chiariamo subito, la pandemia è ancora nel pieno e anzi ha deciso di spingere sull’acceleratore. In Italia i contagi stanno salendo costantemente anche se con ritmi molto più lenti che in altri Paesi d’Europa. Il merito? E’ di una campagna vaccinale che va avanti in maniera sostenuta anche per la dose “booster”. Un bel risultato, sicuramente, che conferma la grande voglia di ripartire dell’Italia. Ci sono anche i no-vax e i no-green pass, in molti casi le due cose coincidono. Manifestano per una supposta “libertà” di scelta nonostante i maggiori costituzionalisti dicano l’esatto contrario. Sì perché quando si parla di malattia ci si deve affidare alla scienza, che ha spiegato in tutte le salse che allo stato attuale le uniche armi di prevenzione sono vaccino e distanziamento interpersonale, oltre al rispetto delle più elementari norme igieniche; quando si parla di leggi e di Costituzione si deve fare riferimento agli esperti, ai docenti universitari, ai costituzionalisti e così via. Purtroppo in Italia proliferano invece gli esperti da social. La laurea in social è diffusissima purtroppo per loro, però, non ha valore e per fortuna per tutti noi.

Le fake anti-vaccino sono numerose, alcune anche fantasiose, con fondamento scientifico? Assai poche, o meglio, il dubbio sui possibili effetti collaterali c’è, così come c’è per ogni medicinale e ogni vaccino che viene somministrato. E’ così, quando il fisico si trova al suo interno elementi chimici può reagire in maniera avversa. Di scientifico c’è poco altro. C’è invece da sottolineare che la tecnica dei vaccini Pfizer e Moderna è attualmente allo studio per una lunga serie di altri destinati a combattere la diffusione di patologie gravi e gravissime, compresi alcuni tumori. Chissà, allora, cosa si dirà quando dalla sperimentazione si passerà alla somministrazione di questi vaccini. Facciamo una piccola previsione…”perché lo Stato non li inserisce fra la prestazione gratuite?”. Sì perché molto spesso la memoria è corta, anzi cortissima e gli stessi che oggi urlano e gridano al complotto giudaico-capitalista, domani saranno quelli che chiederanno l’accesso universale a tali future cure sempre contro lo stesso nemico.

I numeri ci raccontano la realtà. Oggi la diffusione del virus è molto alta per le fasce di età più giovani e tra i no-vax convinti, soprattutto i ricoveri ospedalieri e in terapia intensiva sono quasi tutti rientranti in queste categorie. Ma il vaccino non immunizza, è la vulgata più comune fra i resistenti. E’ esattamente così. Scienziati e medici hanno sempre spiegato che il vaccino rende più difficile la vita al virus, ma molto più difficile perché si è meno contagiosi e ci si contagia che più difficoltà. Nel caso di contagio, poi, si riduce fortemente il rischio di essere ricoverati e di morte. In un’ideale bolla di solo vaccinati, ad esempio, si potrebbe tornare ad una vita normale con piccole attenzioni dettate dal buonsenso. Nel caso in cui si fosse in presenza di soggetti fragili allora la vaccinazione sarebbe fortemente auspicabile per evitare rischi francamente inutili.

L’Italia non vuole e soprattutto non può permettersi un nuovo duro e lungo stop delle attività lavorative e il giro di vite appena approvato dall’esecutivo va letto in tal senso. Basta chiusure, se non strettamente necessarie per la salute pubblica, e sì ad un valore diverso tra chi in questi mesi ha dimostrato senso civico, da una parte, e ha compiuto tutti gli atti necessari per proteggersi dalla malattia dall’altra. Sì a maggiori libertà per chi rispetta le leggi anche quando non piacciono, però devono assolutamente esserci maggiore rigore e più controlli altrimenti si rischia di vanificare ogni sforzo.

Ora che si avvicinano le Feste, con le luci, lo shopping, gli eventi è giusto dare un guro di vite per quelle attività che tanto hanno sofferto in questi due anni ma gli imprenditori stessi devono essere i più rigorosi e attenti alle regole per non trasformarsi in “prenditori” e poi vittime al prossimo eventuale lockdown perché i cittadini e non solo una parte di essi, non possono sopportare un nuovo blocco soprattutto se questo sarà dovuto a scarso rispetto delle regole, controlli leggeri e, magari, positivi in quarantena che invece escono tranquillamente certi, o quasi, di farla franca.




Su Vetrya e le aziende del settore VAS interviene Chiara Caimmi presidente di AssoCSP

Riceviamo e volentieri pubblichiamo una lettera di Chiara Caimmi, presidente di AssoCSP, l’Associazione dei fornitori di contenuti e servizi a valore aggiunto per telefonia cellulare (Content Service Providers). L’Associazione, nata nel 2009, raggruppa e rappresenta le principali aziende italiane e multinazionali leader nel settore del mobile content.

Egregio Direttore,

abbiamo notato che il Suo giornale ha denunciato i problemi occupazionali della società Vetrya. Si è appreso, da quanto letto su vari articoli, che 137 famiglie rischiano di perdere la propria fonte di sostentamento a causa del crollo del fatturato della società battezzata come nuova “Google italiana”.  Invero, la vicenda umana che sta interessando gli incolpevoli dipendenti di Vetrya, verso cui AssoCSP esprime massima solidarietà, è comune a tantissimi lavoratori impegnati nella filiera dei cd. VAS (Valued Added Services) che, attualmente, si trovano sguarniti di opportune forme di tutela.

Come noto, infatti, come tantissime società Content Service Provider (i cd. CSP), Vetrya era attiva nella catena del valore della fornitura di servizi premium. Tuttavia, mentre quest’ultima aveva sempre dichiarato che i servizi a valore aggiunto rappresentavano solo una linea del business aziendale, molti CSP erogavano esclusivamente VAS.  Conseguentemente, con la chiusura del mercato dei servizi a sovrapprezzo, determinata dalla delibera AGCOM (delibera n.10/21/CONS, la cui impugnazione pende dinanzi al TAR) probabilmente derivante anche dall’apertura di un’indagine avviata dalla Procura di Milano, tali aziende, in primis, sono entrate in crisi, con dirette conseguenze sui loro lavoratori. Insieme con i CSP è stato messo alla corda un intero indotto: si tenga in considerazione, a tal fine, che la filiera dei VAS coinvolgeva – oltre che i CSP e gli operatori telefonici – società di call center, di creazione di contenuti, di controlli antifrode, di sviluppatori e di tanti altri professionisti.  La crisi del mercato, pertanto, ha investito un’intera filiera di operatori ed innumerevoli posti di lavoro, che ben potrebbero mettere a disposizione dell’intero Paese il know how acquisito nell’ottica di favorire lo sviluppo tecnologico sui sistemi digitali e in particolare su quelli di pagamento.

Per tali ragioni, il problema richiederebbe un intervento diretto del legislatore nazionale, nonché maggiore attenzione da parte del Governo.  Non è questa la sede per addentrarsi nel sistema che ha portato agli scandali che hanno interessato il mercato dei VAS. È sufficiente sottolineare, tuttavia, che la decisione di AGCOM di disporre il barring dei servizi, determinando il crollo del mercato, è apparsa sin da subito sproporzionata: essa ha infatti determinato il fallimento di tutte le società coinvolte, indistintamente, senza intervenire per risanare il mercato ed appurare meriti e responsabilità.  Eppure, AssoCSP, da sempre impegnata a tutela della categoria, aveva da tempo segnalato le criticità del sistema all’AGCOM e al Comitato VAS, sottolineando gli interventi da adottare per rimuoverle: il rispetto dei regolamenti già vigenti, la rimozione del conflitto di interesse, il ripristino della trasparenza. Ciononostante, l’Autorità aveva scelto di soprassedere, salvo poi procedere a adottare una misura tanto estrema quanto ingiusta.

In questo contesto, l’art. 21 del disegno di legge sulla concorrenza 2021 ha previsto la modifica dell’art. 1, comma 3 quater del d.l. n. 7/2007 (convertito con legge n. 40/2007), disponendo il divieto espresso per gli operatori di telefonia e di comunicazioni elettroniche di attivare, senza il previo consenso, espresso e documentato, del consumatore o dell’utente, servizi in abbonamento da parte degli stessi operatori telefonici o di terzi, inclusi i cd. servizi premium.  Tale modifica, invero, non appare soddisfacente. La scelta di internalizzare i flussi di attivazione dei servizi a sovrapprezzo ponendoli nella responsabilità degli Operatori di telefonia, sebbene assunta allo scopo di garantire la trasparenza della filiera, modalità in essere nel mercato VAS da vari anni, ha determinato infatti ulteriori problemi, atteso che le misure di controllo che questi avrebbero dovuto implementare (come appurato dalle delibere AGCOM 191/20/CONS; 190/20/CONS; 224/21/CONS) non sono state sufficienti. Il problema nasce da una sorta di conflitto di interessi per cui l’Operatore è colui che controlla e colui che guadagna, quindi, come già avvenuto nel mercato VAS, non è indifferente al numero di abbonamenti ai servizi a sovrapprezzo.  Va vista con favore, tuttavia, la scelta della politica nazionale di intervenire sul tema, accendendo i riflettori sul mercato dei VAS. Si tratta, infatti, di una formidabile occasione per avviare un confronto partecipato, per cui si fornisce la propria disponibilità, che possa condurre all’adozione di misure in grado di ripristinare il mercato, salvaguardare i posti di lavoro e garantire la tutela dei consumatori.

Solo in questo modo sarà possibile non solo fornire sostentamento ai dipendenti di Vetrya, ma soprattutto supportare tutte le piccole aziende e le tante famiglie che ruotano intorno alla filiera dei servizi premium, individuando soluzioni di continuità per quei CSP che hanno bruscamente subito la risoluzione dei contratti da parte degli Operatori e perso le customer base costruite in anni di investimenti.  Considerando l’attenzione che ha dato il suo giornale sulla vicenda dei lavoratori di Vetrya, si auspica che nello stesso modo possa procedere a dare voce a chi si trova nella stessa o peggiore situazione.

Chiara Caimmi – Presidente AssoCSP




Boom di turisti ma la città merita e i cittadini avranno vantaggi?

Il week-end lungo di inizio novembre è stato sicuramente molto positivo per Orvieto. tanti turisti in strada, molti ristoranti erano al completo, i monumenti principali con lunghe file all’esterno in attesa di entrare. Un bel risultato in un ponte che non aveva, tra l’altro, appuntamenti di rilievo programmati. La conferma dei numeri piuttosto lusinghieri, anzi da vero e proprio record arrivano anche dal sindaco e assessore al turismo, Roberta Tardani, “nel lungo fine settimana del Ponte dei Morti sono state oltre 7mila le presenze al pozzo di San Patrizio e Orvieto è stata una delle mete più gettonate dell’UmbriaDal 26 novembre inizierà il ricco calendario di eventi natalizi che culminerà con il ritorno di Umbria Jazz Winter. Ci sono dunque tutte le premesse per chiudere in bellezza questo anno”. 

E la città è stata all’altezza? Il boom di turisti si è avuto per le politiche di promozione di Regione e Comune? I cittadini godranno dei maggiori introiti derivanti dalla bigliettazione del pozzo, dai parcheggi e dall’imposta di soggiorno? Sono queste le domande fondamentali per capire se il turismo che sceglie Orvieto poi incide sulla qualità della vita del territorio.

Indubbiamente la città offre una varietà di attrazioni, monumenti e eventi che sono per numero e qualità superiori alle attese. E’ anche ben chiaro che la nuova segnaletica turistica ha avuto successo. Si vedono molti turisti fermarsi, inquadrare i qr-code e continuare nel loro itinerario alla ricerca di nuove emozioni. Si vedono gruppi soffermarsi in angoli prima meno noti, meno frequentati, sconosciuti ai più. La città non è, invece ancora pronta alla rivoluzione che porta con se il turismo. I negozi hanno orari classici, una sparuta minoranza ha scelto quello continuato, con il disappunto di molti “ospiti” che si sono ritrovati a guardare vetrine senza poter misurare, toccare con mano, acquistare. Eppure basterebbe coordinarsi, altro vocabolo che soprattutto tra imprenditori non sembra essere molto conosciuto. Ognuno è geloso del suo piccolo orticello e non rende partecipe l’altro delle novità anche positive. E così il risultato è spesso sotto gli occhi dell’osservatore attento con gli ospiti lasciati soli, senza un’offerta attenta alle loro esigenze. La città non è pronta per quanto riguarda l’attenzione e il confort nelle vie dello struscio. Auto, camioncini, furgoni, spazzatrici, raccolta dei rifiuti per tutta la mattina lungo le vie centrali tra tavolini all’aperto e famiglie intente a camminare pensando di essere “al riparo” dai motori.

La promozione ha avuto un ruolo fondamentale per il boom turistico della stagione e di questo week-end? Sicuramente la presenza di Orvieto in spot, programmi, presentazioni ha avuto un ruolo fondamentale nella stagione, soprattutto dopo la riapertura tra giugno e luglio. Per questo week-end hanno giocato a favore dell’Umbria tutta la relativa vicinanza geografica con l’area metropolitana di Roma e per Orvieto, come sempre, ha giocato un ruolo importante l’essere sulla principale direttrice di traffico nord-sud. In programma non c’erano eventi di rilievo tra il 30 ottobre e il 2 novembre eppure la città era piena, a tratti stracolma. Duomo, Pozzo e territorio sono un biglietto da visita di gran classe, attraente e forse anche la vicinanza con Civita ha spinto a scegliere Orvieto come base di partenza per un week-end all’insegna del buon vivere.

E ora la domanda finale: i vantaggi per i cittadini? Questa è poi il quesito principe. Gli amministrati del sindaco sono i cittadini che chiedono servizi migliori, tariffe più vantaggiose, sanità pubblica che risponde alle esigenze della popolazione. Dall’altra parte abbiamo un Comune che per riuscire a vincere questa sfida multipla deve assolutamente avere denari a disposizione e questi possono arrivare proprio dal turismo e cioè dagli introiti dei parcheggi e dei siti culturali dei pertinenza del Comune. I cittadini devono poter avere un ritorno magari con tariffe differenziate per i parcheggi, con una pulizia più accurata di alcune strade del centro storico che non hanno la stessa cura di altre, solo per esempio. Sarà così? “Lo scopriremo solo vivendo”, recita una canzone famosissima di Battisti. Altrimenti i grandi investimenti pubblici per attirare turisti avranno l’effetto di riempire la pancia di alcuni e di lasciare gran parte della città con gli stessi problemi irrisolti pur avendo l’occasione di risolverli o almeno di provarci.




Via col vento

Pale eoliche: quattro a Orvieto, tre a Castel Giorgio per un totale di 42 MW

Il nome è suggestivo, intrigante, sa di antico ma anche di modernità: si chiama PHOBOS, e non è il figlio di Ares, dio della Guerra e di Afrodite, dea della Bellezza, figure della mitologia greca.

E’ un progetto di impianto eolico per 7 areogenetarori (le pale eoliche) da 6 MW ciascuno, da realizzarsi tre a Castel Giorgio su terreni di proprietà dell’Opera del Duomo e quattro a Orvieto su terreni di privati cittadini.

Il committente, RWE – RENEWABLES ITALIA con sede in Roma, una Srl a socio unico che si occupa di “Produzione di energia elettrica”, ne ha affidato la progettazione a News Developments, società di Cosenza per servizi di ingegneria integrata e a Vamirgeoind (Ambiente, Geologia, Geofisica) di Palermo. Il Parco eolico è ora al Ministero della Transizione Ecologica per la valutazione di rito, e l’istruttoria sembra essere in fase avanzata. Dalle nostre parti invece regna il silenzio: è comprensibile riservatezza o deprecabile disinformazione?

In Via col vento Rossella O’Hara l’indimenticabile interprete del film, ossessionata dal suo matrimonio con Rhett e dalla sua passione per Ashley, marito della cugina, conclude con un “Domani è un altro giorno”.

Per i cittadini dei due Comuni è tempo di conoscere, anche per loro da domani inizi un altro giorno. Parlino Andrea Garbini, sindaco di Castel Giorgio e Roberta Tardani, sindaco di Orvieto; parli anche Andrea Taddei, presidente dell’Opera del Duomo, per sapere se abbia, anche solo informalmente, espresso un placet alla realizzazione del progetto sui suoi terreni, attratto dagli introiti derivanti dall’eventuale concessione: è vero che i soldi non bastano mai, ma la situazione economica dell’Ente è sana e non lo giustificherebbe. Diversa è la situazione dei proprietari dei terreni nel comune di Orvieto; si tratta di campi che rendono poco e reclamano fatica, la resa per loro aumenterebbe almeno di dieci volte: una sorta di “gratta e vinci” senza nemmeno comprare la cartella.

Parlino anche le associazioni ambientaliste (Amici della Terra, Italia Nostra, WWF) e quelle economiche e di categoria. Prendano voce i tanti VIP che popolano le colline dell’Orvietano: sono persone di sicura sensibilità ambientale, si commuovono alla vista di una zucchina che spunta nel loro orto; verifichino dai loro casolari se avranno “finestre con vista” sulle pale eoliche: ciascuna è alta 200 metri dal piano di campagna.

Ad oggi, in quel di Castel Giorgio, sembrerebbe che si registrino solo il “grazioso” disappunto della Principessa del Liechtenstein che un anno fa ha acquistato il rudere di Montiolo per circa 800mila euro, facendo sorridere le casse tristi della Fondazione Claudio Faina, già proprietaria; e la contrarietà, ritengo per niente graziosa, di Alice Rohrwacher, attrice e regista di successo internazionale, che appena può si rifugia nella casa di famiglia. Entrambe hanno fatto la prova “finestra con vista” e vedono le pale a circa 100 metri.

Un accorato appello, infine, alle intellighenzie politiche e culturali dell’Umbria e dell’Alto Lazio (il progetto si estende anche a Bolsena, Civita) perché scendano in campo senza timidezze prima che il Ministero dia la VIA libera al progetto.

A noi, “popolo semplice” – per dirla con Antonio Gramsci – tutti coloro che sanno, possono e vogliono ci convincano se dobbiamo arruolarci con Ares a favore delle pale eoliche o continuare ad amare Afrodite, perché la bellezza e la tutela del paesaggio sono stati finora beni preziosi e inalienabili dei nostri territori. Se potremo sperare in un futuro migliore o se, come sempre, i vantaggi saranno per pochi e gli svantaggi per molti.

Per saperne di più: Parco eolico – www.va.minambiente.it/it-IT/oggetti/documentazione/7975/11719




Pci, “è veramente giusto il tracciato del secondo stralcio della complanare?”

Si è dato notevole risalto all’ autorizzazione del nuovo stralcio della complanare, arteria che dovrebbe ricollegare la SS 71 con il casello autostradale e la SS 205, eliminando i tratti interni ai centri abitati di Segheria, Sferracavallo, Orvieto Scalo ed in parte Ciconia. Il nuovo tratto previsto, di circa 3,6 km, che dovrebbe agevolare, i flussi di traffico da e verso la zona industriale di Bardano, si attesterà alla rotonda del ponte sul fiume Paglia e correndo parallelo alla autostrada, terminerà sulla SP Sferracavallo – Allerona, all’altezza del torrente Romealla. Se poniamo l’attenzione alla finalità che ha motivato e finanziato il progetto nel suo complesso, questo stralcio è quello che meno di tutti contribuisce allo scopo. Infatti, mentre il primo, pur lasciando immutata la criticità di via Angelo Costanzi, ha realizzato un ulteriore ponte sul Paglia, utile per gli abitati di Ciconia e La Svolta ed indispensabile se dovesse risultare impraticabile il ponte dell’Adunata.

Questo progetto consentirà solo di eliminare una parte dell’ormai minimale traffico di mezzi pesanti che accedono alla zona di Bardano, industriale di nome, ma non più di fatto, vista la progressiva, irreversibile diminuzione delle attività produttive. Rispetto al più consistente traffico che attraversa Orvieto verso l’alto Lazio e la costa tirrenica, nulla cambia infatti, finché non verrà realizzato il raccordo mancante con la SS 71, che riteniamo sia quello più complesso ed impattante a tutti gli effetti. Di questo naturalmente non possiamo attribuire particolari responsabilità alla Giunta attuale, risultando sia il progetto generale che la sua suddivisione cronologica in stralci, antecedenti al suo insediamento.

Ciò che invece vorremmo ci fosse chiarito da questa Amministrazione comunale, è il perché, a fronte del progetto originario che ci risulta essere stato votato all’unanimità dal Consiglio comunale dell’epoca, ci vediamo presentare oggi un nuovo tracciato, completamente diverso dal precedente. Quali sono gli elementi intervenuti nel frattempo, che hanno portato a questo cambiamento? Rispetto al posizionamento di una nuova arteria viaria del primo progetto, previsto a ridosso di quelle esistenti, che pur aumentando il volume e la invasività delle infrastrutture, avrebbe almeno contenuto l’impatto all’interno della medesima fascia, vorremmo sapere perché si sia scelto di realizzare la strada, costruendo ex novo in altro sito, superando a priori qualunque riflessione su quanto di negativo possa determinare al contesto circostante. Prima di entrare nel merito oggettivo di questo stralcio di complanare, quello che più contestiamo è il disinteresse e la mancanza di qualsiasi attenzione al territorio ad alla sua naturale e potenziale vocazione.  Traslare di decine di metri l’asse del nuovo raccordo, allontanandolo da quello autostradale, non è indolore come se fossimo nel deserto africano o nella steppa siberiana.

Significa, anche, ridurre drasticamente l’esercizio della ottimale attività agricola su una vasta area ad elevata produttività e destinazione pregiata, peraltro anche sede di produzioni ricadenti nei presidi slow food, significa creare dei refusi di incolto, nei quali diventerà difficile e non remunerativo attuare qualunque attività agricola ma che comunque, non potendoli abbandonare, richiederanno in ogni caso la ricorrente manutenzione a cura dei rispettivi proprietari. Oltre al danno, anche la beffa!

Ed aggiungiamo danno a danno!

Per anni, sotto qualunque tipo e colore di Amministrazione, è stata consentita sul piano del fiume Paglia la pressoché totale possibilità di escavazione di inerti, tanto da determinare, una diversa struttura e stratificazione del terreno rispetto a quella originaria, con perdita di qualità organica e soprattutto di capacità drenante. Perseverando nel non voler ammettere che forse, una delle vie per la transizione ecologica tanto decantata sul PNNR, fino ad ora solo a parole  dal nostro premier, passa anche per una nuova concezione di sviluppo che includa a pieno titolo l’agricoltura e la salvaguardia del territorio, oltre a digitalizzazione ed alta velocità, si continuano a privilegiare infrastrutture, quali una  strada, a servizio di uno sviluppo industriale e di un commercio che non ci sono più, noncuranti del sito dove verrà ad essere collocata e minimizzando le ripercussioni derivanti. Tra le ripercussioni, la più importante, è senz’altro la perdita di suolo agricolo utile e pregiato. L’ingombro del nuovo rilevato stradale, comprensivo delle fasce di rispetto laterali, delle strade vicinali di raccordo, delle cunette e quanto altro, assomma a diversi ettari, non pochi metri quadri. Si tratta di perdere ancora una volta terreno, attività, produzioni tipiche.

Non riusciamo a capire quale credibile e sostenibile visione di futuro, induca ancora a sviluppare e costruire, senza una minima certezza di risultato e di impatto economico e sociale, spendibile e vivibile dalla gente. Altra prova lampante che si ragioni per segmenti ed a compartimenti stagni, è data dal conflitto di intenti che si viene a determinare con il progetto della Regione, tramite il Consorzio di Bonifica, relativo alla trasformazione e potenziamento dell’impianto di irrigazione interrato per l’area di circa duecento ettari, tutta potenzialmente utilizzabile per colture ad elevata redditività, che verrebbe ad essere tagliata a metà della arteria stradale.

Ci sembra, anche, “una cattedrale nel deserto”, la rotonda intermedia prevista in corrispondenza della intersezione con la strada comunale del Molinaccio. Costi ed ingombro non sono di certo giustificati dall’insignificante volume di traffico che interessa quella “stradina”, a tutti gli effetti di campagna. In secondo luogo, ci sembra molto forzato il sottopasso delle linee ferroviarie e della autostrada in corrispondenza del torrente Romealla, dove le quote di intradosso dei relativi ponti, obbligano a posizionare la nuova strada praticamente al livello di scorrimento del torrente, in regime di magra e non di piena.

Noi, ed insieme a noi gli agricoltori, gli imprenditori agricoli, alcune associazioni di categoria e ci auguriamo tutti coloro che individuano nell’ambiente, nell’agricoltura e nelle opere di regimazione e valorizzazione del territorio la vera nuova fonte di sviluppo e la matrice di una transizione virtuosa, chiediamo che venga rivista la scelta progettuale in atto, rivalutandola e magari condividendola all’interno di una partecipazione più lungimirante e molto più convinta.

                                                                                                                         PCI Federazione di Orvieto




Il Crescendo politico? Contraddittorio e a caro prezzo per il contribuente

La storia del Crescendo nasce lontano nel tempo e di sicuro quanto espresso, almeno in termini di aspettative a partire dal nome, non si è poi verificato nel corso dei 22 anni di vita del consorzio di sviluppo. Tanti sono infatti gli anni trascorsi dal quel 1999 quando l’allora sindaco di Orvieto, Stefano Cimicchi, insieme ad altri colleghi del territorio diedero vita a questo veicolo di spesa pubblica destinata a rivitalizzare o concepire aree produttive, con l’obiettivo di aumentare l’occupazione nel territorio orvietano e creare infrastrutture al servizio del sistema imprenditoriale. Da allora sono stati spesi non meno di 8 milioni di euro (tra debiti accumulati e capitale versato dai soci) oltre 360mila euro ogni anno dal 1999 ad oggi. I risultati di questa spesa pubblica sono certamente residuali targando questa esperienza politica con il marchio peggiore, ovvero quello dello spreco di denaro pubblico. Oggi più che mai, travolti dalla crisi del COVID, possiamo cogliere quanto 8 milioni di euro avrebbero potuto rappresentare un ottimo viatico allo sviluppo territoriale purché spesi con criterio. Invece a 22 anni di distanza l’Orvietano continua a elemosinare la banda internet e la fibra, non ha collegamenti ferroviari veloci e tanto altro. Come si dice il tempo è denaro e in questi 22 anni poco è stato fatto e molto è stato sperperato. 

La scorsa settimana il consigliere Stefano Olimpieri ha riproposto politicamente il tema Crescendo addirittura con una mozione in Consiglio comunale per decretarne il “definitivo superamento” grazie al “cambiamento” voluto dalla giunta Tardani che sta, a suo dire, così mettendo la parola fine al “sistema di potere attraverso associazioni società e consorzi strumentali ad estendere ….i tentacoli – della politica di sinistra – sulla città e sul territorio”. Difficilmente si può essere in disaccordo con il giudizio storico di Olimpieri, soprattutto perchè quella stagione di “spesa allegra” oggi non sarebbe più possibile e di certo si stenta a coglierne il risultato in termini di investimento. Tuttavia la mozione di Olimpieri, almeno per la vicenda Crescendo, appare fuori tempo massimo, ridondante e insensata

Se infatti le conclusioni sulla pessima gestione politica della spesa pubblica attraverso l’articolato sistema delle partecipate concepito nel corso dell’ultimo ventennio sono condivisibili e lampanti, risulta comunque essere tardive e altresì ridondanti dato che, per il Crescendo, questa analisi fu fatta e suggellata con la messa in liquidazione dall’allora Giunta Concina ad Orvieto insieme agli altri Comuni del territorio già nel 2013. Addirittura la messa in liquidazione ad Orvieto fu firmata dal vice sindaco di quella Giunta, Roberta Tardani. Di fatto quella decisione pose fine alla fallimentare esperienza del Consorzio grazie anche ad un consenso trasversale che vide le giunte di sinistra che seguirono confermarne l’esito e soprattutto la soluzione. Allora si scelse la liquidazione per mettere un freno alla spesa, fin lì fuori controllo, e preservare il patrimonio accumulato nel Consorzio minimizzando così l’impatto futuro delle perdite sui conti dei Comuni e dei contribuenti. 

Se invece si approfondisce l’analisi dei documenti societari (statuto e bilanci) del Consorzio Crescendo, la mozione di Olimpieri è si legittima, come l’ha giustamente definita Matteo Tonelli nel suo editoriale “Crescendo, con il fallimento rischio debito e blocco attività produttive” pubblicato su questa testata lo scorso 22 agosto, ma risulta essere del tutto insensata. Si vuole infatti giustificare la richiesta di fallimento da parte del Comune di Orvieto con la necessità di terminare l’esperienza del Consorzio Crescendo perché improduttiva e soprattutto perché onerosa per le casse del Comune che nel bilancio consuntivo, appena discusso, ha dovuto accantonare 360mila euro per coprire/sanare la sua esposizione nel Consorzio.  Ciò che stona oltre che a chiedere il fallimento non sia un creditore bensì un socio e per di più debitore (il Comune di Orvieto), è che questa valutazione politica ancorché tecnico-economica sia stata già presa nel 2013 dalla Giunta Concina e dall’allora vice sindaco Roberta Tardani. Cosa è cambiato da allora ad oggi e soprattutto cosa ha fatto cambiare idea alla maggioranza che il sindaco Tardani guida con piglio solerte su un tema così ben conosciuto? 

I fatti e i numeri non aiutano certo a comprendere questo cambiamento di rotta ma, soprattutto, impongono un ulteriore quesito: Cui prodest? Di certo non conviene al contribuente e di seguito proverò a darne qualche evidenza oggettiva.

Il Comune ha accantonato circa 360mila euro a fronte di un suo debito potenziale risultante dal bilancio 2020 di circa 607mila euro. Questo perché è stata contabilizzata la compensazione tra le partite a credito e a debito del Comune nei confronti del Consorzio. Infatti dal bilancio del Comune risultano sia un credito di 288.400 euro per IMU sia un debito di 40.298 euro relativo alle quote 2019 e 2020. La compensazione di tutte queste partite dà appunto il risultato di un debito per il Comune di Orvieto pari a circa 360.000 euro. Un approccio contabile corretto se in costanza di liquidazione, nel senso che è solo con la liquidazione che può essere ipotizzata una compensazione delle partite di credito e debito. 

Con il fallimento la musica cambia e di molto. Mentre il liquidatore ha la facoltà ed i poteri statutari di transare ed accettare compensazioni di partite, il curatore fallimentare non ha questa facoltà. Il curatore fallimentare deve seguire una sequenza molto rigida nelle operazioni fallimentari, deve prima incassare tutti i crediti e liquidare tutte le attività e, solo dopo con il ricavato saldare, per intero o pro quota secondo le disponibilità, tutti i creditori. Tutto ciò comunque mai e poi mai con compensazione di partite, come proposto dall’approccio contabile del bilancio consuntivo comunale appena approvato. In caso di fallimento il debito che il curatore richiederebbe al Comune di Orvieto non sarebbe pari all’accantonamento previsto di 360mila euro, bensì sarebbe di 607.000 più 40.298, quindi poco meno di 650.000 euro.

E’ vero che con il fallimento cesserebbe l’esborso annuo della quota annuale del Comune di Orvieto quale socio del Consorzio, ma sul punto va fatta una valutazione tra costi e benefici: è vantaggioso pagare 650mila euro tutti e subito, piuttosto che accantonarne a riserva solo 360mila per risparmiarne 20.000 all’anno (valore della quota sociale del Comune di Orvieto)?

A questo primo quesito la risposta sembrerebbe scontata ma di sicuro renderebbe già insensata la richiesta di fallimento da parte del Comune. Eppure l’insensatezza appare ancora più evidente e pesante per le tasche del contribuente se la valutazione dell’impatto di questo cambio di rotta politica della Giunta Tradani sul futuro del Crescendo si focalizza sull’attivo del Consorzio, ovvero sui suoi asset immobiliari. Dall’ultimo bilancio del 2020 il Consorzio dichiara all’attivo un patrimonio immobiliare da liquidare di circa 3,8 milioni di euro e altri beni per circa 800mila euro. Un tesoretto che si è via via assottigliato e che, per esempio, nel 2018 ha consentito attraverso alcune vendite di immobili e transazioni di debiti un utile di gestione del Consorzio Crescendo. In fondo dei 22 anni di spesa pubblica attraverso il Consorzio ai Comuni e, di conseguenza, ai contribuenti cosa resta se non almeno il patrimonio? Nel 2013 La politica aveva giustamente sentenziato: basta con gli sprechi e la spesa improduttiva e tuteliamo almeno il patrimonio, minimizzando le perdite. Con il fallimento questa tutela verrebbe di fatto a mancare mentre sarebbe certa una svalutazione degli asset immobiliari da aggiudicare attraverso aste pubbliche.

Se fin qui la liquidazione ha consentito cessioni a prezzi congrui, senza svalutazioni selvagge, il fallimento aprirebbe la strada ad aggiudicazioni al ribasso da parte di imprenditori che, seppur interessati, oggi si vedono aperta la strada ad una possibile aggiudicazione del patrimonio del Crescendo a prezzi di saldi di fine stagione

Se oggi i 3,8 milioni di asset immobiliari venissero liquidati il saldo negativo in quota parte a carico del Comune di Orvieto (13,4%) sarebbe ben inferiore ai 360mila accantonati, mentre è lecito pensare che la procedura fallimentare porti ad una svalutazione tra il 60 e il 70% degli asset triplicando l’esborso (ben oltre i 600mila euro) per i comuni e i contribuenti che secondo l’Art. 25 dello Statuto del Crescendo sono chiamati a coprire dette perdite. Oltre al danno di una spesa pubblica senza alcuna valore d’investimento il contribuente verrebbe così ulteriormente beffato vedendo ancora una volta “socializzate” le perdite e “privatizzati” gli utili con patrimoni ceduti al mercato a prezzi di saldi e senza oneri.

Concludo aggiungendo che se la mozione del consigliere Olimpieri è tardiva e ridondante come insensata è l’avallo della maggioranza e del sindaco Tardani, ancor più assordante è il silenzio di una minoranza che sulla questione ha marcato visita al Consiglio comunale e che sul fatto non proferisce ancora parola.

Cosa sta accadendo alla politica orvietana?




Crescendo, con il fallimento rischio debito e blocco attività produttive

Nell’ultima riunione del Consiglio Comunale del 19 agosto scorso, insieme all’approvazione del bilancio consuntivo del Comune è stata votata dal Consiglio un’altra importante decisione, comprensibilmente passata in secondo piano rispetto all’Atto centrale di quella riunione che era il bilancio consuntivo, ma non per questo meno significativa per le sue possibili implicazioni future.

Mi riferisco alla decisione di proporre su iniziativa del Comune di Orvieto l’istanza per il fallimento del Consorzio Crescendo già in liquidazione volontaria.

Senza voler entrare nel merito della decisione, trattandosi di un atto di indirizzo politico ed in quanto tale comunque legittimo e rispettabile, è opportuno chiedersi se l’auspicato fallimento del Consorzio Crescendo sia davvero la migliore soluzione possibile per arrivare alla chiusura dell’esperienza; è opportuno chiedersi soprattutto quali potrebbero essere sotto il profilo pratico le implicazioni e le conseguenze del fallimento dell’Ente, perché il fallimento è evidentemente una procedura molto diversa dalla liquidazione volontaria.

D’altra parte, se la motivazione della scelta risiede nella volontà politica di chiudere l’esperienza negativa del Consorzio Crescendo, si può osservare che questa esperienza si è già conclusa nel 2013 con la decisione dei Soci di metterlo in liquidazione volontaria, quindi invocare oggi il fallimento del Consorzio per “chiudere quell’esperienza” appare fuori tempo e fuori luogo.

Tornando al tema delle conseguenze derivanti dall’apertura del fallimento, la più ovvia e la più immediata consiste nell’obbligo per i soci di ripianare le passività del Consorzio, come peraltro è ben noto al Consiglio Comunale visto che nella risoluzione che è stata votata è ben spiegato che nel conto consuntivo 2020 del Comune sono appostati circa 376.000 € al fondo accantonamento per perdite delle partecipate, “somma che rappresenta l’importo che il Comune di Orvieto dovrebbe sborsare per chiudere definitivamente la propria avventura all’interno del Crescendo”.  

In primo luogo, osservo che l’appostamento al Fondo accantonamento per perdite delle partecipate non può essere definito “un fatto politico innovativo” visto che è un preciso obbligo di Legge al quale il bilancio del Comune deve adeguarsi, ed inoltre una cosa è “accantonare al fondo per perdite” la somma di 376.000 € (forse abbondantemente sottostimata) altra e ben diversa cosa sarebbe l’obbligo di effettivo esborso della stessa cifra. In concreto, mentre oggi il Comune di Orvieto “rischia” di dover sborsare 376.000 € con la dichiarazione di fallimento dovrebbe pagare immediatamente quella cifra.

Altro effetto potenzialmente dannoso che deriverebbe dal fallimento consisterebbe nella sostanziale indisponibilità dei beni ancora di proprietà del Consorzio, che si ricorda sono formati da aree e immobili a destinazione produttiva dislocati in diversi Comuni del territorio. Infatti, mentre con la liquidazione volontaria i liquidatori hanno la facoltà di vendere i beni di proprietà senza particolari formalità, come è avvenuto in questo periodo di liquidazione durante la quale è stata venduta buona parte dei beni, il curatore fallimentare non può procedere alle vendite prima di aver inventariato e stimato il valore dell’attivo e prima di aver completato la procedura di accertamento dello stato passivo ed è tenuto a rispettare rigide e laboriose procedure per la vendita, attività che richiedono tempi tecnici certamente ultrannuali durante i quali le aree e gli immobili sono di fatto indisponibili. Questo potrebbe comportare che quei Comuni dove le aree produttive sono esclusivamente quelle di proprietà del Consorzio, si troverebbero sprovvisti di aree destinate ad attività produttive, di fatto impossibilitati ad acconsentire a qualunque ipotesi di avvio di attività imprenditoriali, con l’unica alternativa quella di individuare autonomamente altre aree con i tempi ed i costi conseguenti al loro adeguamento.

Io non so se queste valutazioni siano state fatte prima di votare la proposta di chiedere il fallimento, non so se ci sia stato un confronto con gli altri Soci del Consorzio, non so se siano stati interpellati preventivamente i Liquidatori, che ricordo sono Professionisti indipendenti di grande esperienza e comprovata competenza, per conoscere lo stato e la prevista evoluzione della liquidazione, ma se tutto ciò non fosse stato fatto e la decisione fosse stata presa solo sulla base di convinzioni e valutazioni di carattere squisitamente politico, allora ci potrebbe essere il rischio che la decisione potrebbe a posteriori rivelarsi avventata e frettolosa.

Ripeto, un atto di indirizzo politico è sempre per sua natura legittimo e rispettabile al di là delle diverse opinioni, ma deve sempre essere accompagnato e sostenuto anche da valutazioni di carattere pratico soprattutto sulle sue possibili implicazioni future, altrimenti lasciandosi trascinare dalla smania di sfoltire l’albero si corre il rischio di perdere un po’ di lucidità e segare il ramo dove si sta seduti.




“Continua la campagna dell’ignoranza perciò occorre rimettere la realtà sui propri piedi”

La storia dell’uso dell’ignoranza per miseri scopi di potere personale o politico è vecchia quanto il mondo. Oggi essa però è più deleteria perché dispone di straordinari moltiplicatori. Ad essa si collegano infatti con straordinaria facilità operazioni di falsificazione programmata della realtà e manifestazioni di demagogia improvvisata o meno dei corifei, che più si fanno largo e più creano danni. Io penso che sia un dovere civico contrastare questo lavoro di falsificazione. Perciò faccio la mia pur modesta parte di informazione documentata. Solo per rimettere la realtà sui propri piedi. Oggi mi occupo dunque di quelle che qualcuno si ostina a chiamare fake news, ma che in verità non lo sono semplicemente perché non sono notizie ma solo affermazioni false in quanto del tutto arbitrarie.

1. “Il Green pass è illegittimo perché impone il vaccino in modo surrettizio”. FALSO, perché non impone nulla, semmai rende utile e vantaggioso vaccinarsi se si vuole evitare alcune legittime limitazioni stabilite per la tutela della salute pubblica. A riprova il fatto che si può avere il Green pass anche se ci si fa un tampone o se si è guariti dal Covid da non più di 6 mesi.

2. “Il Green pass è incostituzionale perché limita la libertà di spostamento”. FALSO, perché non limita affatto la libertà di spostamento, ma vieta l’accesso a determinati servizi, esercizi e luoghi, secondo specifiche modalità per la salvaguardia della salute pubblica, che è inderogabile principio costituzionale.

3. “Il Green pass è incostituzionale perché viola l’art. 16 della Costituzione”. FALSO, perché l’articolo 16 della Costituzione così recita: “Ogni cittadino può circolare e soggiornare liberamente in qualsiasi parte del territorio nazionale, salvo le limitazioni che la legge stabilisce in via generale per motivi di sanità o di sicurezza”. Esso, come si vede, consente di limitare la libertà di circolazione con una legge approvata dal Governo o dal Parlamento, come è nel caso del green pass.

4. “L’art. 32 della Costituzione vieta trattamenti sanitari obbligatori”. FALSO, perché innanzitutto non siamo di fronte ad un trattamento sanitario obbligatorio, nemmeno surrettizio, come già detto. Ma falso anche in quanto si vorrebbe far passare come dimostrazione di incostituzionalità una affermazione a cui si toglie l’ultima parte, che infatti così recita: “se non per disposizioni di legge”, come è il caso del green pass. Dunque doppiamente falso.

5. “Il Green pass viola la normativa sulla privacy”. FALSO, per una serie di semplici ragioni: A. le autorità, quando ricorrano motivi di salute pubblica, possono per legge disporre limitazioni alla privacy; B. la legge comunque vieta ai privati di usare e diffondere i dati dei clienti che esibiscono il green pass; C. il green pass di fatto funziona come un documento di riconoscimento personale che viene esibito a richiesta per accedere ad un servizio o ad un luogo. Non risulta che qualcuno faccia problema, se non chi immagina una società senza regole, se il titolare di un bar chiede la carta di identità ad un giovane prima di vendergli alcolici al fine di verificare se è minorenne, come è suo preciso dovere. Infine, va ricordato che l’autorità preposta alla garanzia della privacy, il GPDP (Garante per la Protezione dei Dati Personali), appunto in Garante per la privacy, ha dato parere favorevole sul DPCM di attuazione della piattaforma nazionale DGC per l’emissione, il rilascio e la verifica del Green Pass del 09.06.2021.

Tutto ciò dovrebbe bastare. Ma, ad ulteriore corredo, sarà bene ricordare alcuni principi basilari della nostra Carta costituzionale:

1. non esiste la libertà assoluta;

2. la tua libertà cessa dove inizia la mia;

3. la libertà del singolo può essere sempre limitata a favore dell’interesse collettivo;

4. l’interesse collettivo viene prima di quello del singolo;

5. nessun principio prevede la disobbedienza civile;

6. non è il cittadino a stabilire se una legge è legittima o meno ma la Corte costituzionale;

7. Facebook non è la Gazzetta Ufficiale della Repubblica.

Ovvio che tutto ciò non vuole e comunque non basterà a far cambiare opinione ai portatori di verità personali assolute o di ideologie complottiste, né a convincere i professionisti del dubbio e tantomeno a far cambiare opinione ai cultori di fake news, ma che almeno non si dica che non c’era la possibilità di leggere, informarsi, confrontarsi e contribuire a mettere la realtà sui propri piedi. Si potrebbe dire infine così: “viva i piedi, quando la testa sta andando per conto suo!”