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Antonio Rossetti, CTS, “per lo sviluppo economico e demografico del territorio servono infrastrutture, servizi e reti di imprese”

Il problema demografico legato all’economia è emerso prepotentemente nell’ultimo report di Cittadinanza Territorio e Sviluppo da cui si evince un quadro a tinte piuttosto fosche per l’Area Interna Sud-Ovest Orvietano e per Orvieto in particolare, soprattutto se in assenza di decisioni politiche che tentino di invertire la rotta.  Sicuramente l’età media piuttosto alta degli imprenditori, la conseguente scarsa propensione all’investimento, la mancanza di reti di aziende sono i principali segnali di un territorio sui cui si devono concentrare gli sforzi della politica con un raggio d’azione di medio-lungo termine.  Antonio Rossetti, che insieme a Eleonora D’Urzo ha curato il report, sintetizza con una frase asciutta l’attuale situazione, “splende la luce del crepuscolo”. 

Ma è veramente così grave la situazione nel nostro territorio?

Inizierei con il dire che la demografia ha un suo impatto specifico sull’economia più che viceversa anche se sicuramente le problematiche economiche aggravano il problema demografico.  Insomma, crescita demografica ed economica vanno a braccetto ma vorrei sottolineare un punto chiave e cioè che c’è un legame diretto tra demografia e investimenti economici. 

Cosa intende di preciso con nesso diretto tra demografia e investimenti economici?

Il primo punto che mi viene in mente è che con il calare dell’età media c’è un corrispondente aumento della voglia di intrapresa e un conseguente aumento degli investimenti. Oggi la situazione a Orvieto vede un’età media alta, un male comune al paese ma che si accentua in Umbria e ancora di più nel territorio, e un risparmio medio molto alto, io azzarderei nel definirlo esorbitante e questo perché non cresce la forza-lavoro.  Cero di spiegarmi con un esempio semplice.  Prendiamo una ricetta di un dolce in cui servono 6 uova per un chilo di farina.  Aprendo il frigorifero ci accorgiamo di avere solo tre uova; quindi, dimezziamo la dose di farina e prepariamo il nostro dolce. Ci avanza mezzo chilo di farina che rimane nella dispensa, un po’ come i soldi che vengono accantonati, senza possibilità di utilizzo e  rimangono in banca sui conti correnti, senza che ne benefici in alcun modo l’economia del territorio. In sostanza, se un fattore di produzione, la forza lavoro adeguatamente preparata, non cresce, l’altro fattore, l’investimento, “rimane in frigorifero”, per continuare la metafora, cioè rimane risparmio inoperoso. Una carenza d’offerta di lavoro in età giovanile, preparata alle nuove tecnologie, e un eccesso d’offerta di età avanzata implica che il risparmio non ha buone opzioni per divenire investimento: la regola è implacabile, la crescita economica è sempre limitata dal fattore di produzione che scarseggia.

In pratica con un’età media aumenta la propensione al risparmio e cala quella all’investimento, da quello che sta dicendo. Tutto sembra favorire proprio questo sistema in Italia.  Non è che quando si dice che il nostro non è un Paese per i giovani si dica la verità?

Si dice la verità se l’intera struttura economica del paese non è adatta agli investimenti e, di conseguenza, non sei attrattivo per i giovani.  A Orvieto, poi, come detto, c’è un cronico eccesso di risparmio, soldi fermi, immobilizzati che non vengono immessi nel ciclo economico fatto da micro e piccole imprese, senza gradi realtà industriali, senza un cluster produttivo.  In pratica i giovani non trovano l’humus adatto per crescere e vanno altrove. C’è da dire a queste problematiche, malgrado se ne sia preso consapevolezza, ancora non si è  trovato una possibile soluzione.

Lo smart-working dopo la pandemia lo stanno velocemente archiviando, in particolare nella PA, potrebbe essere, invece, una soluzione sulla quale investire?

Veramente potrebbe essere proprio una delle soluzioni per far tornare attrattivo questo territorio.  Lo smart- working potrebbe intercettare i già residenti obbligati al pendolarismo e che in taluni casi optano, con il tempo, per il trasferimento definitivo in altri comuni.  La creazione di spazi dedicati al lavoro da remoto renderebbe attrattivo il territorio anche per i non residenti.  Con lo smart-working si svincola la demografia dal luogo fisico dove si lavora, cioè tutti possono lavorare senza muoversi ma c’è il rischio del cosiddetto dumping salariale: la concorrenza sul mercato di forza lavoro proveniente da zone a più basso saggio di salario che possono concorrere senza spostarsi dal luogo di origine; si pensi, a livello internazionale, all’informatico indiano che lavora da Nuova Delhi per una azienda statunitense;  tutti problemi che proprio con la pandemia si sono evidenziati nel lavoro agile e che devono essere assolutamente normati.  Sarebbe un errore grandissimotornare al lavoro tradizionale in via esclusiva, dimenticandosi i vantaggi sia per le imprese sia per i lavoratori dello smart-working.

Sicuramente serve anche altro, però, per rendere attrattivo un territorio…

E’ evidente.  Io dividerei tutto in due fasi, una prima riguarda la politica che deve occuparsi di casa, trasporti e reti immateriali a partire dalla fibra, quella vera.  In una seconda fase il ruolo principale è degli imprenditori.  Affrontiamo la prima fase.  Se gli immobili hanno prezzi troppo alti e le tasse locali sono elevate  è chiaro che i territori contigui, che hanno problemi simili, tra l’altro, hanno gioco facile nel fare concorrenza.  Al netto del lavoro agile i collegamenti sono fondamentali se si vuole uno sviluppo del territorio, allora potenziare i collegamenti ferroviari e migliorare quelli stradali sono tappe fondamentali per rendere attrattivo un territorio. In ultimo le reti immateriali che devono essere adeguate eliminare il gap tecnologico, una strozzatura oggi insopportabile per chi fa impresa. 

E gli imprenditori?

Arriviamo alla seconda fase, quella della creazione di una catena di valore delle aziende.  Partiamo dal presente.  Oggi il tessuto imprenditoriale orvietano è fatto di micro e piccolissime imprese, nella maggioranza dei casi.  Manca poi un settore trainante, non c’è una specializzazione; insomma, il settore produttivo orvietano non è quello che si definisce “un distretto”, è solo un arcipelago di microimprese scollegate; in tali circostanze,  si deve connettere tali imprese in una logica che susciti le cosiddette “economie di rete”, per favorire l’innovazione e creare valore.  Di esempi ne abbiamo in Italia, basta girare e studiare per capire come può funzionare questo modello.  Ogni piccola realtà imprenditoriale da sola non può competere sui mercati interni e internazionali, perché c’è chi deve occuparsi del marketing, chi degli acquisti, chi del credito e così via.  Fare tutte queste fasi del ciclo di produzione per una piccola azienda è impossibile oppure  ha un costo troppo alto, ecco che diventa fondamentale, direi vitale, “fare rete” per vivere e per crescere. 

Poi c’è il delicato capitolo dell’accesso al credito con tante imprese che si lamentano per le difficoltà nell’ottenerlo.

Le regole sono piuttosto rigide e il merito creditizio è importante.  Se non cresci e non comprimi le spese, cioè migliori la produttività, difficilmente avrai un merito creditizio soddisfacente e altrettanto difficilmente potrai avere finanziamenti. Insomma, sono tanti cani che si mordono la coda, tutti in fila, ecco perché piccolo non è bello se non si trovano sinergie e accordi tra imprese.

Quindi lei sta praticamente contraddicendo quello che in tanti in questi anni sostengono e cioè che “piccolo è bello”?

No, assolutamente.  Bisogna però intendersi sul piccolo è bello.  Si può essere piccoli, si può vivere, si può essere vincenti ma all’interno di un distretto industriale, cioè di un’economia indirizzata a pochi prodotti, o al limite monoprodotto, in cui alcuni fattori di produzione lavorano in comune per il distretto, elidendo le diseconomie legate alla piccola dimensione.  A Orvieto abbiamo realtà imprenditoriali piccole ma non abbiamo un distretto o una rete; inoltre, quando si produce con tecniche che non sono sulla frontiera dell’efficienza, si rischia l’implosione in quanto l’innovazione rigurda sempre le tecniche a più alto tasso di produttività, non le altre: se si producono macchine con la chiave inglese mentre i paesi più evoluti usano i robot, è evidente che il progresso riguarderà come migliorare l’utilizzo dei robot e quindi sposterà sempre di più al margine che utilizza la chiave inglese. Da ultimo la  politica: sovente non pianifica oltre le prossime elezioni.  Il ruolo della politica nel favorire la nascita di una rete di imprese o di un distretto industriale è fondamentale, ma si deve pensare oltre il limite temporale del singolo mandato altrimenti ci si limita a gestire il quotidiano senza un progetto per il futuro. Ma non addossiamo tutte le colpe alla politica, anche le imprese devono aver chiaro che per essere protagoniste del loro futuro devono essere pronte a cedere un po’ della loro autonomia, senza snaturarsi e senza vendere ma aprendosi al mercato e alla collaborazione con le altre imprese del territorio pensandosi come parte di un sistema complesso e non come protagonisti assoluti.  L’alternativa è il crepuscolo economico, sociale e demografico di una città e di un territorio.




Paolo Li Donni, presidente CTS, “per provare a evitare il tramonto demografico bisogna agire subito”

L’impresa sociale Cittadinanza Territorio Sviluppo ha presentato un nuovo rapporto dedicato alla demografia e ai risvolti per l’economia dell’Area Interna Sud-Ovest orvietano, curato da Eleonora D’Urzo e Antonio Rossetti.  Il risultato è a dir poco dirompente perché mette a nudo una crisi, o meglio un calo demografico che ha inizio nel 2012 e che è strettamente legato all’economia asfittica del territorio ma in particolare del comune capofila e cioè Orvieto.  Non bastano neanche i nuovi residenti stranieri per riuscire a bilanciare questa perdita che rischia di connotare Orvieto come città al tramonto nonostante gli sforzi che vengono profusi per immaginarla come città viva.  I numeri raccontano un’altra storia, quella di una città dove non si fanno figli, con un’età media più alta di quella già importante dell’Italia e ancor più dell’Umbria e con i giovani che lasciano la piccola città di provincia per trovare lavoro fuori.  Con il presidente di Cittadinanza Territorio Sviluppo, Francesco Paolo Li Donni, abbiamo approfondito proprio la demografia e il suo andamento nel territorio e a Orvieto.

Come è l’andamento demografico del territorio e di Orvieto in questi anni.  E’ vero che il calo è ormai strutturale?

Negli ultimi anni in tutto il territorio italiano si è assistito ad un fenomeno di progressiva diminuzione dei residenti: nell’Area Interna questa tendenza decrescente, a partire dal 2012, è significativamente più consistente rispetto alla media umbra. Da sottolineare che Orvieto, il comune capofila, mostra una flessione dei residenti ancora peggiore rispetto alla media dell’area territoriale indagata. Tra il 2020 e il 2021 il solo Comune di Orvieto ha registrato un calo dei residenti dello 0,7% in linea con il resto dell’Area Interna ma lievemente superiore sia alla media umbra che a quella italiana.  I peggiori sul territorio sono Fabro, Castel Viscardo, Allerona, Alviano e Ficulle mentre sono solo Parrano, Porano e Giove hanno evidenziato variazioni positive dei residenti.

Ma gli stranieri hanno contribuito a mitigare questo calo demografico?

La componente straniera della popolazione, al contrario di quanto accadeva negli anni precedenti e in controtendenza rispetto alla situazione regionale e nazionale, aumenta lievemente con un’incidenza maggiore nei comuni più piccoli.  Al contrario si registra un calo del 12% a Castel Viscardo e del 9,6% a Allerona, solo per citare i più significativi.  Orvieto, invece, ha un’incidenza di stranieri del 9,7%, più alta della media dell’Area Interna e dell’Italia, ma inferiore a quella umbra.  Il risultato è che gli stranieri hanno indubbiamente addolcito una curva discendente che avrebbe potuto essere sicuramente più decisa.  

Una domanda da vero profano.  Qual è il rapporto che andrebbe a indicare un’inversione di tendenza?

La risposta è apparentemente semplice, aumentare il tasso di natalità e riportarlo almeno a due figli per coppia.  Qui iniziano i problemi.  Oggi è più difficile che in passato formare una famiglia e fare il primo figlio.  E’ aumentata l’età media delle neo-famiglie e, di conseguenza, del primo parto.

Perché c’è tato questo spostamento più avanti negli anni?

Sicuramente la parità di genere ha contribuito a spostare in avanti l’età in cui si forma una nuova famiglia perché si studia e l’ingresso nel mondo del lavoro avviene più tardi.  Lo stesso discorso vale anche per gli uomini.  Per quanto riguarda i figli una delle cause principali è da ricercare nella scarsità di servizi dedicati alla famiglia.  Secondo i dati ISTAT in Umbria solo il 54,3% dei comuni ha un asilo nido contro il 58% dell’Italia e il nostro paese non brilla in questa classifica in Europa.  A questo dobbiamo aggiungere anche i costi laddove i “nido” esistono.  Sono costi proibitivi e in quelli pubblici le esenzioni previste per fasce di reddito legate all’ISEE sono veramente basse, direi inadeguate allo stile di vita moderno.

Perché uno degli indici che indica maggiore malessere è quello del rapporto tra giovani e anziani?

Maggiore è il peso di chi è fuori del mondo del lavoro e più alta è la spesa legata alla previdenza sociale e alla salute. Il secondo punto riguarda i giovani.  Dove mancano giovani scarseggia anche la capacità di innovazione rendendo meno concorrenziale il sistema produttivo del Paese, o nel nostro caso, del territorio.  C’è poi un discorso squisitamente economico.  Le pensioni sono già “occupate” dalla spesa per l’aiuto dei propri figli o nipoti e non sono così alte da permettere contemporaneamente anche investimenti nel sistema produttivo. 

Ma quali sono le prospettive per il futuro anche a medio-lungo termine?

Il futuro soprattutto a medio-lungo termine non è roseo.  Le fasce d’età più anziane sono destinate a raddoppiare.  E’ vero, è aumentata l’aspettativa di vita ma con maggiori problemi di salute e in particolare per le donne.  Questo si traduce in un forte aumento della spesa previdenziale ma soprattutto della spesa sanitaria con un ricambio generazionale fortemente deficitario.

Quali sono le possibili chiavi di volta per tentare di invertire questa rotta che vede un mix altamente tossico di scarsa natalità, alta emigrazione giovanile e allungamento della vita media?

Rischio di essere ripetitiva ma per favorire nuove nascite sono necessari forti investimenti per la famiglia.  Indicherei come fondamentali orari di lavoro flessibili, sostegno all’occupazione femminile, congedi parentali paritari, sviluppo dello Smart working, costruzioni di poli sportivi, scolastici e artistici, una seria politica della casa, accesso al credito più facile e investimenti nelle infrastrutture di trasporto.  E’ una lunga lista di interventi assolutamente necessari se si vuole evitare il declino.  Rischia di essere tardi visto che è dal 2012 che tutti i report indicano un invecchiamento della popolazione e un contemporaneo calo delle nascite.  In Umbria la tendenza all’invecchiamento è ancora più marcata e a Orvieto ancora di più anche perché l’intera Regione non è molto ben collegata e negli ultimi anni la situazione è, se possibile, peggiorata.  E’ altrettanto chiaro che questi interventi hanno bisogno di tempo per essere attivati e poi per registrare effetti positivi che però, non sono scontati.




Orvieto a rischio tramonto demografico se la politica non riesce a invertire la rotta

Se il calo demografico e l’invecchiamento della popolazione residente sono i due mali che affliggono pesantemente l’Umbria, per l’Area interna Sud Ovest Orvietano e Orvieto il fenomeno assume una rilevanza allarmante.

Il rapporto (scarica l’intero rapporto) appena pubblicato dall’impresa sociale Cittadinanza Territorio Sviluppo a cura di Eleonora D’Urzo e Antonio Rossetti si ferma a gennaio dello scorso anno e ci fornisce un’analisi storica ricca di dati e correlazioni.  Il declino demografico ha inizio nel 2012 e da allora è inarrestabile. Ogni anno l’Umbria perde circa 5190 abitanti, mentre l’Area Interna si attesta intorno ai 416 e il comune capofila, Orvieto, a circa 140 abitanti. Un’emorragia inarrestabile che in percentuale vede la nostra Regione ottenere una variazione percentuale negativa tra il 2020 e il 2021 pari a -0,6%. La variazione percentuale dell’Area interna e di Orvieto sono ancora peggiori attestandosi a -0,7%. Va evidenziato però che questo dato per Orvieto è ancora peggiore se raffrontato con il +1,5% dell’incremento dei residenti stranieri che è 3 volte quello dell’Area interna (+0,5%) e 5 volte quello regionale (+0,3%).

Insomma, nonostante una poderosa iniezione di nuovi residenti esteri, Orvieto continua a perdere residenti. L’ultima rilevazione Istat a gennaio 2022 infatti porta il nostro comune sotto la soglia dei 20mila abitanti e proiettando il dato del calo demografico medio annuale in 10 anni ci si avvicinerebbe pericolosamente alla soglia dei 16mila abitanti. Anche sul fronte dell’invecchiamento della popolazione residente la musica non cambia: l’Umbria, quinta regione italiana come indice di vecchiaia, si attesta ad un indice pari a 217,7, l’Area Interna 272,8 e Orvieto ad un indice di 264,2. L‘indice nazionale è pari a 184,1. In generale, è difficile attribuire alla demografia una maggiore rilevanza di quella che in realtà presenti nel condizionare l’habitat economico.

I cambiamenti del modo di produzione e il tasso di crescita della produttività tendono a interagire con il tasso di sviluppo della popolazione in un modo complesso, che può variare a seconda della fase del ciclo economico e dell’organizzazione della produzione. La tesi che viene sostenuta nel rapporto è che la stasi demografica, almeno nel recente passato, ha contribuito a generare un eccesso di risparmio, di cui sono presenti le stigmate nel mercato del credito, e di fatto una performance economica inferiore a quanto si sarebbe potuto conseguire con una dinamica demografica migliore.

Peraltro, vi è anche un nesso di casualità dall’economia alla crescita della popolazione: nelle fasi di stagnazione vi saranno maggiori incentivi a migrare piuttosto che immigrare e procrastinare l’età in cui si genera prole.


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