Quel “carnaio” per Orvieto delle 17 e 20

Uno dei treni maggiormente usati (e odiati) dai pendolari orvietani per il rientro a casa è il regionale veloce 4106 in partenza da Roma Termini alle 17,20.
Dopo una partenza all’alba per il solito estenuante e sfiancante turno di lavoro, tantissimi sono i pendolari orvietani che terminata la giornata lavorativa si incamminano verso il binario sei della stazione Tiburtina per attendere questo treno per l’agognato rientro a casa. Tra i tanti ,in questa umida e uggiosa serata di metà gennaio ci sono anche io.
Mentre mi accingo ad entrare nello spiazzale antistante la stazione, giro lo sguardo meccanicamente verso il grande orologio rettangolare che accoglie i viaggiatori. Indica che mancano pochi minuti alle cinque . Mi lascio trasportare dalla prima e dalla seconda scala mobile che porta al piano superiore. Poi, dopo aver percorso i soliti cinquanta metri del piano dei negozi, mi lascio trasportare, stavolta in discesa, dalle due scale mobili che conducono al binario sei e al binario sette. Sul binario sei transitano i treni diretti al Nord, sul binario sette quelli diretti a Roma Termini. Abbandonate le scale mobili, mi incammino in fondo al binario. Per una ragione dettata dal mio inconscio viaggio sempre nella prima carrozza, quella che precede la carrozza motrice del treno. Con un cenno degli occhi saluto un po’ di persone che conosco, anche loro già in attesa. Scorgo parecchi orvietani. Più o meno sempre gli stessi. Costretti a dover deglutire giocoforza ogni santa sera questa amara cicuta denominata regionale veloce 4106, scelta obbligata per poter rientrare alle nostre abitazioni. Il momento più stressante e faticoso da gestire è questa mezz’ora che precede l’arrivo del treno. Con il notare che ad ogni minuto che passa aumenta la calca umana che si distribuisce sul lungo binario, annotazione mentale che ci fa pregustare quello che ci attende una volta saliti a bordo.
Sarà il freddo, sarà la stanchezza dovuta alla pesante giornata di lavoro, sarà l’umidità che ti entra dentro, ma ogni minuto sembra lungo come un’ora.
Alle cinque e dieci, come ogni sera, arriva il regionale diretto a Terni, partito da Roma Termini alle 17,02. Fino a qualche anno costituiva per i pendolari orvietani una fonte di gioia e di salvezza, il suo arrivo. Fermava a Orte. E i tanti passeggeri che dovevano scendere in quella stazione lo usavano.
E si sfoltiva di molto la folla in attesa sul nostro binario, rendendo il nostro rientro a casa più umano e tollerabile. Ricordo, come in un sogno, che c’erano delle volte che riuscivo persino a trovare posto a sedere e poter così dedicarmi alla lettura di un buon libro. Tanto tempo fa. Ricordi di un’altra vita.
Poi i viaggiatori ternani si sono lamentati per l’affollamento fino a Orte, e quella fermata al loro regionale è stata risparmiata. Da allora i tantissimi pendolari diretti a Orte in questa fascia oraria, sono costretti a usare il nostro regionale, primo treno utile per il loro rientro.
Come ogni sera da un po’ di anni a questa parte, sul regionale delle cinque e dieci diretto a Terni ,salgono non più di una decina di persone.  Alle cinque e venti il colpo d’occhio del nostro binario è da brividi . Il binario è affollato in tutta la sua lunghezza disponibile. Alle cinque e mezza in punto finalmente arriva il nostro treno per Orvieto. Arriva già pieno da Termini, con tutti i posti occupati e già un po’ di gente in piedi, distribuita lungo i corridoi.
Arresta la sua corsa, un fischio lacerante avverte che le porte si stanno per aprire e la fiumana umana, come disperati che in mare si aggrappano a una scialuppa di salvataggio, invade tutti i suoi spazi.
Io, come mio solito, salgo nella prima vettura davanti, quella “attaccata” alla cabina motrice. Neanche sono salito che mi ritrovo schiacciato in un angolo dalla marea umana, incastrato tra il finestrino laterale e la parete del bagno. Un robusto giovanotto, con una borsa di pelle dura dai bordi appuntiti tra le mani, sembra volermi perforare la milza. Provo a girarmi di fianco per evitare il doloroso contatto . Nello girarmi mi ritrovo faccia a faccia con lo sguardo impaurito di una bambina tenuta a fatica in braccio dalla madre. Avrà due o tre anni. Ha i capelli sul biondo e gli occhi con una spruzzatina di azzurro. Mi viene istintivamente da pensare che sarà una bambina del Nord Europa. Rifletto sul fatto che la madre non crolla a terra, vittima dello sforzo, giusto perché manca lo spazio fisico per poter cadere.
Appoggiato addosso, sul mio lato sinistro, un signore prova a sistemarsi alla meno peggio. Avrà poco più di sessant’anni. Indossa una tuta blu tipica di chi lavora in qualche officina meccanica, tuta coperta da un pesante giaccone di pelle color terra. Ha la barba un po’ incolta, il viso segnato da vistose rughe. Rimango colpito dal suo sguardo rassegnato e un po’ abbassato, di chi nella vita ne ha dovute passare tante. Al petto stringe una specie di marsupio, dal quale si scorge un contenitore in plastica, di colore arancione. Certamente un contenitore per mantenere caldo il cibo. Mi sembra quasi di vederlo mentre si accinge a uscire da casa di buon mattino, quando ancora la notte avvolge la rupe, con la moglie che con cura e amore sistema in quel contenitore il suo pasto quotidiano. Mi piacerebbe poter essere seduto, per alzarmi e cedergli il posto. Vago con lo sguardo nel corridoio e nello spazio che separa la prima vettura da quella seguente. Due signori di mezza età, ben vestiti e dal linguaggio forbito, apostrofano a malo modo i politici locali, che ancora una volta sembrano interessarsi a treni e pendolari solo quando si è in prossimità di tornate elettorali. Una signora dagli occhi vispi, un po’ appesantita nel fisico, impreca con tono alterato contro il mondo intero.
Un gruppo di studenti, beati loro seduti, inveisce contro un non ben definito comitato pendolari che ancora parla di incontri e monitoraggi da fare .
Mi viene da pensare che nessun monitoraggio può dare idea più veritiera della condizione di viaggio dei pendolari orvietani di questo treno. Osservando con più attenzione il senso di stanchezza e rassegnazione della gente che mi circonda, mi ritorna alla mente il quadro studiato al liceo. Nel quadro veniva raffigurato il viso sofferente e lo sguardo disperato di una marea di persone “appiccicate” le une alle altre, che venivano, senza soluzione di continuità e per l’eternità, punte con uno spillo per espiare non ricordo bene quale loro colpa . Noi che siamo costretti a viaggiare in queste condizioni, che di umano hanno poco, espiamo colpe che non abbiamo. Siamo vittime innocenti delle gravi mancanze di chi dovrebbe tutelarci e fa finta che non esistiamo. Un lacerante fischio di porte che si rinchiudono pone fine a queste mie riflessioni, fischio che segnala che il treno, dopo la solita attesa serale per dare la precedenza a tutti i treni dell’ Alta Velocità, è in partenza.
Neanche facciamo in tempo a uscire dalla stazione Tiburtina che si avverte un fastidioso “gracchiare” degli altoparlanti. Quel fastidioso gracchiare, così inviso a noi pendolari che ci perseguita anche durante le ore notturne . Infatti, per completare lo scenario da film horror del nostro viaggio, ecco che si manifesta (per l’ennesima volta) l’incubo ricorrente e più odioso per tutti noi. Incubo che ha la forma del tono gentile della voce di una giovane impiegata di Trenitalia, la quale con dire pacato e misurato annuncia che, causa il sovraffollamento sulla linea direttissima, il treno 4106 sarà istradato (per l’ennesima volta) sulla linea convenzionale (detta anche “linea lenta”), nel tratto Roma Tiburtina/Orte, con maggiore aggravio di percorrenza di circa 40 minuti.
Intorno a me le solite imprecazioni, le solite frasi piene di indignazione e i soliti sguardi di colpo diventati ancora più cupi e rassegnati .
Io me ne continuo a rimanere schiacciato tra finestrino e parete del bagno. La borsa di pelle dura del robusto giovanotto ha cessato, per fortuna, di essere come una dolorosa punta di spada poggiata sul mio fianco. Il signore con la tuta blu ancora di più ha abbassato lo sguardo e ancora più accentuate sembrano le rughe del suo viso. La bambina tra le braccia della madre inizia invece a piangere. Un piangere lamentoso, che sembra voler fare da sottofondo al nostro stato di disperati pendolari abbandonati al nostro infausto destino . Pianto che diviene sempre più acuto, che diventa la colonna sonora di questo viaggio di ritorno a casa dai tratti “non umani”, a bordo di questo treno che ogni sera fino a Orte diventa un vero e proprio “carnaio”.
Il “carnaio” per Orvieto delle cinque e venti che, sbuffando e fischiettando con il suo carico di disperazione e sofferenza umana, anche stasera scompare nella notte che avvolge la campagna della periferia romana.

ENGLISH VERSION

THAT “CHAOS” FOR ORVIETO AT 5:20 P.M.

One of the most frequently used (and loathed) trains by Orvieto commuters for the journey back home is the fast regional train 4106 departing from Rome Termini at 5:20 PM. After a dawn departure for the usual exhausting work shift, many Orvieto commuters conclude their workday by heading towards platform six at Tiburtina station, eagerly awaiting this train for their longed-for journey home.

In the damp and gloomy mid-January evening, I find myself among the crowd. As I approach the station’s forecourt, my gaze mechanically turns to the large rectangular clock welcoming travelers, indicating just a few minutes until five. I let myself be carried by the first and second escalator leading to the upper level. Then, having traversed the usual fifty meters of the shopping floor, I let myself be carried, this time downhill, by the two escalators leading to platforms six and seven. On platform six, trains heading north pass, while on platform seven, those bound for Rome Termini.

Abandoning the escalators, I walk to the end of the platform. For some reason dictated by my subconscious, I always travel in the first carriage, preceding the train’s driving carriage. With a nod of the eyes, I greet some acquaintances also already waiting. I spot several Orvieto residents, more or less the same faces. Forced to swallow, night after night, this bitter cup called fast regional 4106, a compulsory choice to return to our homes. The most stressful and tiring moment to manage is the half-hour before the train arrives. Noting that with each passing minute, the human throng increases along the long platform, a mental note that anticipates what awaits us once on board.

Whether it’s the cold, the fatigue from a heavy day’s work, or the dampness seeping in, every minute feels as long as an hour. At five ten, as every evening, the regional train bound for Terni arrives, departing from Rome Termini at 5:02 PM. Until a few years ago, it was a source of joy and salvation for Orvieto commuters. It made a stop at Orte, and many passengers destined for that station used it. This significantly thinned the crowd waiting on our platform, making our journey home more humane and tolerable. I recall, as in a dream, there were times when I could even find a seat and devote myself to reading a good book. A long time ago. Memories of another life.

Then, Terni commuters complained about crowding up to Orte, and their regional train stopped making that stop. Since then, the many commuters bound for Orte during this time slot are forced to use our regional, the first available train for their return. As every evening for some years now, no more than a dozen people board the 5:10 regional train bound for Terni. At 5:20, the sight of our platform is chilling. The platform is crowded along its entire length. At precisely half-past five, our train to Orvieto finally arrives. It arrives already full from Termini, with all seats occupied and some people standing, distributed along the corridors.

It halts its course, a piercing whistle warns that the doors are about to open, and the human torrent, like desperate souls clinging to a lifeboat, invades all its spaces. As usual, I board the first carriage in front, attached to the driving cabin. Before I can even settle in, I find myself squeezed into a corner by the human tide, wedged between the side window and the bathroom wall. A robust young man, holding a hard leather bag with sharp edges, seems to want to pierce my spleen. I try to turn sideways to avoid painful contact. As I turn, I find myself face to face with the frightened gaze of a child held in the arms of her mother. She’s two or three years old, with blonde hair and eyes sprinkled with a touch of blue. I instinctively think she must be a child from Northern Europe. I reflect on the fact that the mother doesn’t collapse to the ground, a victim of effort, simply because there’s no physical space to fall.

Leaning against my left side, a man tries to find a somewhat comfortable position. He’s a little over sixty, wearing a typical blue jumpsuit of someone working in a mechanical workshop, covered by a heavy, earth-colored leather jacket. His beard is slightly unkempt, and his face is marked by noticeable wrinkles. I’m struck by his resigned and somewhat lowered gaze, someone who has had to endure a lot in life. He clutches a kind of pouch to his chest, revealing a plastic container, orange in color. Surely, a container to keep his food warm. I almost picture him leaving home early in the morning, when the night still envelops the cliff, with his wife carefully and lovingly packing his daily meal into that container. I’d like to be sitting, to stand up and offer him my seat.

I wander with my gaze in the aisle and the space between the first carriage and the next one. Two middle-aged gentlemen, well-dressed and with refined language, berate local politicians who seem to show interest in trains and commuters only when elections are imminent. A lady with lively eyes, slightly heavier in physique, curses with an altered tone against the entire world. A group of students, lucky to be sitting, inveighs against an undefined commuters’ committee still talking about meetings and surveys to be done.

I think that no survey can provide a truer idea of the travel conditions of Orvieto commuters on this train. Observing more carefully the fatigue and resignation of the people around me, the image studied in high school comes back to my mind. The painting depicted the suffering faces and desperate gazes of a multitude of people “stuck” together, continuously and eternally pricked with a pin to atone for a fault I don’t quite remember. We, forced to travel in these inhumane conditions, atone for sins we haven’t committed. We are innocent victims of the serious shortcomings of those who should protect us and pretend we don’t exist. A piercing door closing whistle puts an end to my reflections, signaling that the train, after the usual evening wait to give way to all high-speed trains, is departing.

We barely have time to leave Tiburtina station when an annoying “crackling” of the loudspeakers is heard. That annoying crackling, so hated by us commuters, haunts us even during the night hours. In fact, to complete the horror movie scenario of our journey, the recurring and most odious nightmare for all of us manifests itself (for the umpteenth time). The nightmare takes the form of the gentle tone of a Trenitalia employee’s voice, calmly and measuredly announcing that, due to overcrowding on the direct line, train 4106 will be diverted (once again) onto the conventional line (also known as the “slow line”) in the Rome Tiburtina/Orte section, with an additional travel time of about 40 minutes.

Around me, the usual curses, the usual sentences full of indignation, and the usual glances suddenly become even darker and more resigned. I continue to be squashed between the window and the bathroom