La Signora Pacini, quando a Orvieto comandava una donna

‘Scattoni, passami l’alabarda… ‘: l’irruzione all’interno del Palazzo del Capitano del Popolo del turista americano in bermuda arancioni e camicia stile Florida-by-night segnava il punto più alto e preoccupante della crisi diplomatica tra Orvieto e Stati Uniti. Correvano gli anni Ottanta, eravamo in un qualche giorno di un qualche maggio. Lei, donna Lea Morelli, per tutti la Signora Pacini, l’aveva adocchiato subito quel gringo mormone che si aggirava nel grande salone con un paio di macchine fotografiche al collo e gli occhi pieni di meraviglia davanti ai colori sgargianti dei costumi che si scorgevano dallo spiraglio dell’anta aperta di un armadio. Nell’aria elettrica dei preparativi in vista del Corteo Storico lo scaciato straniero ad ampi passi si era avvicinato al tavolo di comando posto sotto il finestrone centrale, dove troneggiava donna Lea, e senza convenevoli, come si conviene a gente abituata a comandare il mondo ma a corto di educazione, se ne era uscito in una domanda fatale pronunciata con la cadenza biascicata degli americani quando tentano di parlare italiano: ‘Eskiusmi, qui staanno girando un film sul Medioevo?’. Un lampo: donna Lea era balzata in piedi come una tigre ferita e aveva ordinato al fido assistente di porgerle l’arma più vicina, l’alabarda appunto. Chissà come sarebbe andata a finire. Tutto sembrava volgere al peggio ma Scattoni, da persona di buonsenso, era stato capace di risolvere la situazione, agendo da diplomatico modello Kissinger: fingendo di non aver compreso la richiesta, aveva agguantato l’americano per la schiena, spingendolo poi a forza fuori dal Palazzo. La Signora quella volta ci passò sopra, aveva troppo da fare e scelse di non approfondire la disputa con lo yankee colpevole di aver sottovalutato l’importanza storica e culturale dell’evento in preparazione, scambiandolo banalmente per un film. D’altra parte l’organizzazione del Corteo, il lavoro improbo al quale si sottoponeva di anno in anno, la impegnava a fondo in tempo e fatica. Comunque l’alabarda era affilata e pronta all’uso: donna Lea, in quegli anni incantati di un’Orvieto che non c’è più, era alla guida di un esercito di fedelissimi, quattrocento uomini capaci per un giorno di vestire abiti medievali con tanto di armi, lance, scudi e arazzi, strumenti del tutto funzionanti e operativi. Quattrocento ‘guerrieri’ che avrebbero dato la vita per lei. Mai sulla Rupe nessuna donna è stata più potente.

Erano le stagioni di Golda Meir e Margaret Thatcher e il mondo esaltava le gesta delle ‘Lady di ferro’, donne volitive e ambiziose certo, ma che agli orvietani apparivano come vecchie zie da salotto al confronto con la Nostra. Già, la Signora Pacini come i Blues Brothers: quelli erano ‘in missione per conto di Dio’, lei lo era per conto del vescovo Pieri che negli anni ’50 le aveva affidato il compito di organizzare una rievocazione storica della città medievale nel giorno della festa religiosa del Corpus Domini. Nessun dubbio che fosse la persona giusta: al seguito del marito militare, il colonnello Dante Pacini, donna Lea era stata a lungo in Africa, dove aveva vissuto la guerra e la savana. Insomma, ci voleva una così per tentare di domare gli indomabili orvietani. Questi ultimi ovviamente fecero di tutto per contrastarla e in quelle bigotte stagioni lontane impiegarono le armi di cui disponeva la più bieca provincia: c’era chi parlava di ‘pagliacciata’ essendo restio a sottostare alle disposizioni di una donna e chi la definiva ‘iena’ rimarcandone i modi autoritari. Ma la Signora non si faceva certo mettere in un angolo: nel volgere di poco l’ostracismo divenne ammirazione e la denigrazione mutò in pieno riconoscimento della sua autorevolezza.

Per riempire il registro in cui abbinava i nomi degli orvietani che avrebbero sfilato ai vari ruoli da ricoprire non guardava in faccia a nessuno, se ne fregava della politica e dei potentati locali, replicando a muso duro a Chiesa e Comune e avendo come unico obiettivo la crescita della propria ‘creatura’. Non esistevano raccomandazioni, occorrevano soltanto doti fisiche e portamento: il meno abbiente con lei vestiva l’abito del Nobile, mentre il ricco di turno, pur di prendere parte alla rievocazione, si adattava a fare da paggetto al proprio sottoposto nella vita reale. Fu massimamente democratica pur praticando con successo la dittatura, che era la forma di governo del Corteo: fece sfilare il compianto primo cittadino Adriano Casasole ma mezz’ora prima lo catechizzò a dovere: ‘Caro sindaco, il suo potere finisce sulle scale del Palazzo. Dalla porta in poi comando io. Qui non si vota a maggioranza, qui si decide. E decido sempre io perché qui rappresento nello stesso tempo maggioranza e opposizione’. Così facendo la Signora, a partire da quelle stagioni lontane, vestì i giovinastri orvietani con costumi che in altri contesti avrebbero potuto essere male interpretati e dare sfogo a frizzi e lazzi. Tutto ciò non accadde e il miracolo si compì: ben presto chiunque comprese di essere, in quelle due ore di sfilata, un pezzo fondamentale della Grande Storia di Orvieto, tanto da non potersi permettere schiamazzi, sorrisi e neanche saluti alla fidanzata appostata tra il pubblico. Dagli anni Cinquanta in poi il Corteo Storico è un esempio di marzialità, fedeltà al periodo rievocato, contegno e dignità scenica. Altri eventi del genere sparsi per la Penisola rappresentano la storia; i figuranti del Corteo Orvietano, invece, sono la Storia. Nel mentre che solcano le vie urbane lo fanno spazzando via i secoli e facendo tornare la città al 1290 e dintorni. Tanto erano scelti bene i ruoli dei figuranti che un dodicenne di allora, tornando a casa dalla scuola, si rivolse un po’ allarmato alla madre: ‘Mamma, in strada ho visto il Capitano del Popolo che vendeva bombole del gas’. I turisti giapponesi, a quel tempo numerosi, fotografavano soprattutto la baldanzosa figura del possente Eraldo Cortoni, bellissimo nella sua armatura traslucida. Fatto è – ma potrebbe trattarsi di una coincidenza – che dopo qualche tempo proprio dal Giappone prese le mosse, fino a conquistare un successo mondiale, il fumetto di Mazinga, postmoderno ma di chiara ispirazione medievale. Sergio Riccetti, poi, neanche doveva indossare il costume: probabilmente è stato davvero, con la sua barba e lo sguardo sognante, un uomo del Medioevo giunto fino a noi senza soluzione di continuità. A colpo d’occhio, studiando ma anche affidandosi all’istinto, donna Lea non ha sbagliato mai un abbinamento, trasformando il Novecento orvietano in uno straordinario ritorno all’antica grandezza della città. E proprio questo è, a ben vedere, il commovente lascito della Signora alla propria terra.

Eppure era una donna generosa, gettava cioccolatini sul tavolo da lavoro dei propri collaboratori e da persona intelligente sapeva ascoltare i consigli altrui. D’altra parte fin dalle origini dell’evento era stata ben consigliata da un altro grande personaggio orvietano che ha offerto un elevato contributo di sapienza alla città e nello specifico al Corteo: l’architetto Alberto Stramaccioni. Tuttavia non era semplice accostarsi al carattere d’acciaio della Signora. Le sue convinzioni erano ferree e come tali immutabili: donna al comando, ma con lei in vita le donne non sfilavano. Soltanto dopo la sua scomparsa, infatti, è apparso alla ribalta il Corteo delle Dame, che pure nel tempo ha assunto un suo rilievo e piena dignità grazie al talentuoso impegno di Nicoletta De Angelis. La Signora Pacini è stata una rivoluzionaria a tutto tondo, tanto più se paragonata allo squallido ‘politically correct’ dei tempi attuali. Per gestire il Corteo, compito da lei vissuto 24 ore al giorno nell’arco dell’intero anno, non aveva uno stipendio elargito da un chissà quale ente pubblico, anzi ci rimetteva del suo. Le bastavano l’applauso del popolo orvietano e l’affetto dei suoi figuranti. Ma guai a sgarrare: durante la sfilata aveva ‘spie’ appostate in mezzo alle persone che poi riferivano alla Condottiera ogni mossa di questo o quel figurante. E se mettevi un dito nel naso o salutavi con un cenno l’amichetta in una qualche viuzza lontana dal grande pubblico, lo veniva immancabilmente a sapere e ti cancellava a vita dal Corteo con tanto di scritta rossa sul registro. Se poi, per tua sventura, spostavi anche soltanto di un centimetro il cappello che lei, e solo lei, ti aveva calzato in testa all’atto dell’uscire, e lo facevi magari per darti un’innocente quanto necessaria grattatina, allora al ritorno nel Palazzo la tua testa non valeva più una lira, anzi su di essa tornava a incombere l’affilata ombra dell’alabarda.