La Rosina Montanucci e il suo mitico Bar

‘Presto ragazzi, servite un ‘cordiale’ all’Olandese Volante’. La pingue turista in zatteroni, pantaloni all’inguine indossati nonostante l’esito fortemente negativo della prova-costume e maglietta orange a testimoniarne la provenienza, aveva appena fatto ingresso nello storico Bar Montanucci che le sue calzature inadatte al suolo orvietano si erano impuntate sul porfido, facendola letteralmente decollare addosso al trenino di Michelangeli stracolmo di dolciumi che all’epoca tagliava in due, per buona parte della profondità, il famoso locale. Uno schianto da paura. Nell’attimo immediatamente successivo al fragoroso ’incidente ferroviario’ la Rosina, condottiera del bar, aveva già gestito per intero la situazione, valutando in un solo sguardo che la straniera non si era fatta niente, spavento a parte, e soprattutto che il mitico trenino non aveva riportato danni nello scontro frontale. Correvano gli anni Ottanta e da allora pende il dubbio relativo al ‘cordiale’, cioè se poi sia stato fatto pagare alla donnona, che magari avrebbe meglio apprezzato troneggianti pinte di birra, o se invece sia stato offerto per gentile concessione.

D’altra parte a quel tempo la Rosina era solita strappare alla concorrenza questo o quel professionista orvietano con superalcolici offerti gratuitamente al primo ingresso dello stesso nel suo locale, per poi essere fatti pagare percentualmente un po’ più del loro prezzo nelle successive mescite, via via fino a pareggiare il tutto e a riportare prezzi e offerte al loro giusto valore, avendo nel frattempo conseguito un cliente in più. Ma nessuno si è mai lamentato, visto che la qualità è sempre stata eccelsa e la Rosina costituiva l’attrazione aggiuntiva di un luogo frequentato da vip e gente comune nel quale regnava la democrazia della padrona e al massimo si ottenevano sconti per meri motivi di gradimento personale da parte della stessa. Per intenderci: Sandro Pertini, non di rado presente perché a Orvieto attendeva il ritorno della consorte che lavorava a Firenze, pagava la consumazione, Giulio Andreotti no.

Nel tempo Montanucci è cresciuto di rango fino a divenire un vero e proprio monumento, e infatti un ragazzino di Bologna in gita scolastica scrisse, nel tema riepilogativo della giornata e facendo non poca confusione con il nostro magnifico Duomo, di aver visitato a Orvieto un antico bar nel quale si servivano caffè e cappuccini sotto una volta affrescata da Luca Signorelli e dietro una facciata progettata da Lorenzo Maitani.

Non solo titolare di un esercizio commerciale che ha fatto la storia della città, non solo madre di uno degli orvietani più intelligenti e generosi che la Rupe abbia mai prodotto, il compianto Reno: la Rosina (è appena il caso di far notare che l’articolo è parte integrante del nome, anche all’Anagrafe risulterebbe così) è stata, per svariati lustri, una specie di Università e di Ufficio di collocamento al contempo. Al ragazzetto che si era appena iscritto a Medicina e veniva a consumare una coca cola dopo lunghe ore di studio in vista del primo esame, infatti, davanti agli astanti e con voce squillante affibbiava senza colpo ferire il titolo di dottore, mentre maggiori attenzioni venivano riservate al bancario che immancabilmente apriva la sessione pomeridiana del proprio lavoro con un risvegliante caffè e che veniva accolto, giorno dopo giorno, con un ‘Ragazzi, servite immediatamente il banchiere, il tempo è denaro’. L’infermiere diventava primario, il geometra ingegnere e ad un noto meccanico bisunto che a metà mattinata, tra un carburatore e un pistone, entrava per far fuori una fetta extralarge di torta al semolino, era riservato uno straordinario ‘Servite Enzo Ferrari che deve correre al lavoro’. Insomma, non c’era cliente pagatore che non venisse elevato all’ennesima potenza.

Era una donna che scandiva il ritmo della città, della quale era l’interprete autentica: quando in una sera del 1979 i presenti all’interno del bar furono letteralmente scossi dal preoccupante vibrare della struttura e dallo stridore delle pareti, tutti al colmo della paura volsero lo sguardo alla Rosina seduta alla cassa come sulla tolda di una nave, imperturbabile. Poi squillò il telefono tra le due porte d’ingresso e lei tranquillamente si alzò e andò all’apparecchio per una conversazione di appena un paio di secondi. Infine, girando la testa verso il suo ‘popolo’ in trepidante attesa, chiuse il caso con telegrafica asciuttezza: ‘Signori, è il terremoto. Non è successo niente e il Duomo è ancora in piedi’. Come dire ‘the show must go on’ e guai ad allontanarsi dal locale senza consumare. Non è dato sapere chi si trovasse dall’altra parte della cornetta, forse la stessa entità che informava in diretta la Rosina sui flirt, legali o meno, scoppiati in città: uno non faceva in tempo ad appartarsi con una ragazzetta, magari al Paglia e comunque lontano da sguardi indiscreti per avere piena garanzia di riservatezza, che lei solo un paio d’ore più tardi, all’ingresso del suo bar, nel mentre che dava il resto a un tedesco vestito alla marinara, soffiava di soppiatto al malcapitato appena rientrato dallo sbaciucchiamento: ‘Lascia perdere quella, ha già un paio di fidanzati… ‘. E quando il grande falegname-artista Gualverio Michelangeli, con una scelta di design capace di anticipare tempi e mode, foderò il Caffè con fogli di giornale alle pareti dando vita a una struttura che giustamente meritò il titolo di migliore d’Italia per prodotti elargiti e rilievo architettonico, gli spazi bianchi tra un titolo e un articolo diventarono il tazebao degli amorazzi orvietani, con verità proibite vergate a penna da mano anonima ad allungare gli articoli stessi. E la Rosina, in fondo perbenista e quindi vieppiù costernata, giù a coprire i fogli, ormai resi pettegoli, con altre pagine intonse di giornale che però già alla sera erano divenute foriere di ben altre notizie rispetto alla loro versione originale.

Capitana d’industria e mamma appassionata, lavoratrice solerte e scrupolosa, amante di Orvieto come pochi, la Rosina. Ma, poverina, spesso aveva troppo da fare tra casa e locale, così ogni tanto ci scappava la gaffe. Clamorosa quella relativa al personaggio alto e con il naso ben marcato in volto, elegantemente vestito, che fece ingresso nel bar in un pomeriggio di maggio di un qualche anno tra il Novanta e il Duemila. La Rosina lo riconobbe subito e scandì suadente: ‘Buonasera signor Franco, è un piacere servirla, la vedo sempre in televisione, canta proprio bene, lei è uno vero artista, tra i migliori del nostro panorama’. L’altro accennò un garbato sorriso di ringraziamento, consumò con tutta calma un caffè al bancone e fece per pagare. La Rosina volle offrire, si sperticò ancora in lodi per le qualità canore del cliente e poi avviò il proprio saluto: ‘Grazie per essere stato qui da noi caro Franco, quando vuole porti anche gli altri con cui si esibisce, saranno miei ospiti’. ‘Ma gli altri chi, scusi?’, replicò il cliente. E la Rosina: ‘I suoi colleghi dei Ricchi e Poveri, la biondona, la brunetta e il bel biondo che canta con lei’. ‘Signora – replicò il cliente con un gran sorriso e a tutta cortesia – i Ricchi e Poveri li saluterò senz’altro a suo nome e li informerò della sua squisita gentilezza, lo farò in particolare con l’amico Franco Gatti, ma io di solito canto da solo e mi chiamo Franco Battiato’.   Conservatrice nel midollo seppur capace di gesti di straordinaria solidarietà umana e di apertura sociale (nel celeberrimo locale un occhio benevolo è sempre stato rivolto ai meno fortunati), durante la sua più che cinquantennale attività di titolare di bar la Rosina ha dovuto digerire per forza cambiamenti e novità tecnologiche, rimanendo comunque fedele ai valori e alle tradizioni commerciali del proprio tempo. Quando il figlio Reno dotò il locale di un impianto di filodiffusione che riempì l’aria delle più conosciute note della musica classica mondiale di cui era appassionato, lei dovette fare buon viso, confidando però alle amiche, in gran segreto, di preferire Orietta Berti. Il tutto si chiarì un bel giorno, quando fece capolino nel bar un affilato visitatore inglese, distinto, baffuto e dotato di ombrello pure nella giornata di pieno sole. Gli spazi erano invasi, attraverso l’impianto stereo, da note sontuose. Quello entrò, vide la donna seduta alla cassa, sorrise, alzò il dito in aria con un moto di apprezzamento, come a indicare l’atmosfera musicale, e chiese: ‘Chajkovsky?’. Lapidaria la replica della Rosina rivolta ai suoi baristi: ‘Un toast per il signore, prego’. Tremenda gaffe o volontaria gag anti-modernista giocata sull’assonanza? Non lo sapremo mai.