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Dalla parte dei perdenti

Scusate, l’età avanza e dagli anni che si affastellano spuntano ricordi ingialliti. Tuttavia non parto dal Medioevo ma racconto l’Orvieto di ieri, al massimo dell’altro ieri, per come l’ho sbirciata fin dall’epoca dei miei calzoni corti. L’Orvieto di Comunisti e Democristiani che, seppure con un rispetto reciproco ormai svanito negli attuali rivoli di polemiche senza senso e senza sapienza, si scrutavano in cagnesco fino a riprodurre lungo i vicoli e nelle piazze della Rupe quell’esistenza a blocchi contrapposti che caratterizzava il compartimentato mondo di allora. Da queste parti vivevamo sonnacchiosamente la fine degli anni Sessanta, poi stiracchiati ai Settanta e via andare verso gli Ottanta e poco oltre. All’ombra del Duomo i monsoni rivoluzionari che tempestavano le metropoli europee e americane, e quindi i lutti della nostrana violenza politica rossa o nera inquadrata nella Strategia della Tensione, giungevano come spifferi di boatos troppo lontani per scuotere una terra in cui i secoli si erano succeduti con la lentezza ponderata della provincia. Era una società a due binari e due apparivano finanche le tipologie degli uomini, al di là delle ovvie e allora quantomai radicali divisioni imposte dalla difformità dei ceti sociali.

C’erano i compassati orvietani iscritti per vocazione al partito ideale della maggioranza silenziosa, incravattati comunisti o scudocrociati che fossero, borghesi e benpensanti, sempre pronti a mantenere dritta la barra di un qualsiasi status quo si presentasse loro davanti. E il motto praticato da questa variegata compagnia era in stile ‘western de noantri’: nessuno si muova, tantomeno chi avrebbe voluto mettersi in gioco per tentare di modificare al meglio le sorti della collettività locale. E c’erano poi, dall’altro capo del filo ma fatti di identica diversità, i non allineati, anch’essi indifferentemente marxisti o democristi, animati da quella strana vis che ogni tanto pervade taluni orvietani più sensibili degli altri e perciò più confusi. Cittadini con idee in testa ma, forse proprio per questo, senza obiettivi certi. Gattopardeschi e ‘malaticci’, affetti dall’ansia di voler cambiare tutto per non cambiare niente. Sia chiaro, a margine del mondo sociale vissuto per lo più lungo il Corso, sulle scale del Duomo o ai tavoli dei bar (i social del periodo), vivacchiava anche un terzo genere di ominide orvietano, quello costituito dagli estremisti-ma non troppo (come andava di moda a quel tempo), di destra o sinistra fa lo stesso, stile ‘pochi, maledetti e subito’, magari più eruditi della media però incapaci di conciliare Rivoluzione e Orvietanità. Al punto che per molti quello di Lotta Continua era un ideale ammirato ma da scantonare, poiché almeno nei pomeriggi domenicali la continuità doveva interrompersi sul divano di casa al cospetto dell’italianissimo rito della partita di calcio con annessa radiolina all’orecchio. E poi si rimediava facile qualche ragazza in nome dell’amore libero e uno di essi andava dicendo che alle comodità dell’odiata borghesia avrebbe concesso al limite, quanto a proprio stile di vita, soltanto ‘la Nutella e i Pooh’.

Dentro gli angusti confini di questo schema paludato, solo apparentemente diverso dall’attuale realtà civica, si muovevano con ammirevole dedizione i politici comunisti e socialisti della maggioranza istituzionale, affollata orchestra che il sessantennale strapotere – a tratti gestito con mano salda e indubbio decisionismo, perfino con popolare rettitudine nella figura del sindaco Italo Torroni e ammirevole quanto tragica moralità in quella di Adriano Casasole – ha progressivamente imbolsito fino a renderla ‘stonata’ come un pianoforte scordato, tanto che è poi bastato un emulo di Arturo Benedetti Michelangeli a strapparle il palcoscenico.

Ma a ben guardare erano i democristiani oppositori, in quegli anni complessi e bellissimi, a risultare senz’altro più attivi e propositivi (in fondo il casello autostradale e dunque la vera fortuna di Orvieto si deve a loro) e ben più simpatici, come sanno esserlo solo quanti, in qualsiasi circostanza della vita, una volta messi all’angolo si tolgono la giacca, si rimboccano le maniche e picchiano fendenti un po’ per difendersi e molto per attaccare.

Quattro personalità affiorano quando lo sguardo della memoria volge a quelle stagioni così fortunate per qualità di uomini e opinioni. Il senatore Romolo Tiberi (1921-2001 nella foto), insegnante da standing ovation per eloquio e cultura, occupava poltrone governative come sottosegretario all’industria, al commercio e all’artigianato, portando a Roma e nelle dimore del Potere Nazionale non ancora messe a soqquadro dal caso-Moro le istanze e gli aneliti della piccola realtà orvietana. Un altro Romolo, l’avvocato Romoli, in anni appena precedenti offriva alla città e ai suoi concittadini un solido contributo di valore professionale e umano anche nella veste di presidente dell’Azienda di Promozione Turistica, tale da proiettare Orvieto al confronto con le più celebrate località del panorama nazionale, da Firenze a Venezia, mentre ormai da decenni subiamo la concorrenza di Ronciglione, con tutto il rispetto per la corsa dei cavalli a vuoto (senza fantino) che si inscena in quella suggestiva località. Come non andare poi con la mente a Sergio Ercini (1934-2007), intelligenza vivida, orvietano dallo sguardo sul mondo e uomo di relazioni internazionali, apprezzato presidente della Commissione politica del Parlamento Europeo ma sempre attento, con proposte dinamiche, alle cose di casa propria. Il quarto volto è quello bonario di Alberto Piscini, giornalista e bancario, vicino al senatore Tiberi e suo consigliere e segretario, cronista di razza dal ticchettio incessante sulla Lettera 22, storyteller delle minuzie orvietane ma anche della politica più alta e qualificata, corrispondente della ‘Nazione’ dalle cui pagine narrava per lunghe stagioni, con penna verace, le vicende belle o nefaste della città. 

Di questi illustri qui citati, in verità a Orvieto si parla assai poco se non nel cuore dei familiari. Eppure il loro contributo è stato vasto, qualificato, operoso e quindi degno di nota e di memoria. Perdenti, almeno secondo i triti schemi della politica, ma vincenti, addirittura campioni indiscussi, nel panorama della genuinità orvietana, del sostegno reciproco tra abitanti di una stessa landa, della concretezza applicata a quel civismo che non sacrifica il popolo agli obiettivi personali ma che, anzi, persegue come primario traguardo la crescita della società e il pieno rispetto delle aspirazioni collettive.

Qualcuno verrà che saprà ricordarli a dovere, poiché il loro agire è stato un ponte, una fase di passaggio sicuro e percorribile verso quel futuro brillante che, pur nelle difficoltà del presente, resta un doveroso auspicio rivolto alla città più bella del mondo.