Utilizzando Google Maps sarebbe un attimo venirne a capo, ma molti abitanti della Rupe non conoscono – e non vorranno mai saperlo, perché vedrebbero svanire un loro mito giovanile – il nome attribuito dalla toponomastica urbana a quel vicoletto dritto e stretto che partendo quasi vergognosamente dalla pomposità del Corso, un po’ oltre la Torre del Moro, conduce a piazza del Popolo, e che a un certo punto si allarga in una sghemba piazzetta improbabile e bellissima, bellissima perché improbabile, impastata di tufo, mistero di rientri a casa oltre l’orario concesso e passi che risuonano lenti sul porfido. D’altra parte gli orvietani le intitolazioni se le fanno a mano, artigianalmente, animati come sono dalla genialità popolare della frequentazione diretta dei luoghi: via Felice Cavallotti (cioè il Vittorio Sgarbi del suo tempo quanto a vis polemica e duelli, effettivi o televisivi in un caso o nell’altro) la trovi ovunque in Italia, ecco allora che in città si parla piuttosto di Reto Lungo, poiché una strada così dritta e piana da queste parti non s’è mai vista. Insomma, i più non sbaglieranno nel continuare a definire quel tal viottolo di piacevole umidore estivo e piccole facciate di case che sembrano avvolgerti in un abbraccio complice per qualche tua impresa non dichiarabile, con l’appellativo di ‘vicoletto di Carlino’.
In effetti proprio in quella piazzetta il buon Carlo Mariotti, Carlino appunto, già negli anni ’40 del secolo scorso e ancora per tanti decenni successivi – cioè in un tempo nel quale gli spostamenti non erano così facili come oggi, l’Autostrada sarebbe giunta solo più tardi e nessuno parlava di ‘rete’ se non la domenica sugli spalti del campo sportivo – aveva la sede della propria attività di corriere per Roma. Ti rivolgevi a lui per acquistare nella Capitale un bene, di qualsiasi genere fosse, non reperibile nell’asfittico e non certo florido mercato delle bottegucce orvietane dell’epoca. Innovativo, non c’è che dire: esistono i venditori ambulanti? Beh, Carlino aveva rovesciato il concetto, scegliendo di fare, e con grande successo, il compratore ambulante.
Partiva al mattino con le ordinazioni, viaggiava in treno, e tornava in quella sede-sgabuzzino sul far della sera con la valigia piena di acquisti, incassando un piccolo surplus sul prezzo, che era poi il compenso per il suo servizio romano, viaggio compreso. Clientela disparata con esigenze per lo più banali: dal romanzo introvabile da Fusari al gomitolo di lana pura e forse anche vergine, molti testi universitari per studenti orvietani fuori sede nel senso che pur avendo la sede ufficiale dei propri studi a Roma o Perugia quelli se ne rimanevano bellamente a Orvieto a far vasche e scrutare le ragazze, pezzi di ricambio per orologi non funzionanti, tanto non funzionava neanche l’orologio del Maurizio, e costosi capi di abbigliamento femminile per signore nostrane con l’amante danaroso.
Carlino, conosciuto da tutti i negozianti romani, trovava e riportava ogni cosa, e potevi commissionargli l’oggetto più strano e di nicchia – un concittadino in anni lontani gli chiese la foto con autografo di Claudio Villa e il nostro senza battere ciglio l’accontentò – sapendo che alle sette di sera avresti comunque ritirato il pacchetto. Oggi c’è Amazon, a quel tempo Carlino produceva in chiunque un ‘Ammazza oh’ di sorpresa quando riusciva, lui che pure aveva una vista da talpa e lenti spesse come i bicchieri della Trattoria dell’Orso, a esaudire ogni desiderio della clientela.
Uomo serio, persona perbene, onesto e discreto, Carlino, ma quantomai scaltro nel rintuzzare richieste animate da intenti poco chiari: all’orvietano attempato carico di dubbi sul comportamento della propria signora e che dunque gli aveva commissionato l’acquisto in un certo negozio romano di una cintura di castità, fece presente come in quel momento la moda femminile sembrasse orientata piuttosto verso le bretelle, mentre a quell’altro che pretendeva un silenziatore per pistola, indicando peraltro l’armeria capitolina in cui reperire l’aggeggio in questione, dichiarò tra il serio e il faceto che per ammazzare la suocera sarebbe bastato il ddt, facilmente reperibile anche a Orvieto.
Carlino ambasciatore della sua città in terra straniera, chilometri e personalità, se non altro perché è stato per mezzo secolo il nostro sguardo su Roma, un pezzo di Rupe tra il presidente della Repubblica e il Papa, e se ti capitava di incontrarlo in piazza Navona o in via del Corso e osservavi come si muoveva nei negozi e nelle aziende dell’Urbe, sicuro e spedito, salutato e apprezzato, ti sentivi rincuorato e comprendevi al volo quella che gli orvietani sanno essere un’assoluta verità, e cioè che in fondo Roma non è altro che un quartiere periferico di Orvieto.
Adesso che gli acquisti sono telematici e viaggiano più nell’etere che lungo le strade o sui binari, l’antica e mai dimenticata umanità di Carlino, e la dimensione perennemente sformata della sua grande valigia chiusa a fatica, continuano a dirci che il commercio è nato nella notte dei tempi come prima forma di comunicazione e libertà sociale, sviluppandosi tra uomo e uomo per centinaia di stagioni, poiché comprare e vendere non sono altro che le due facce di una stessa medaglia chiamata progresso.
Il vicoletto che, in tempi lontani ma non troppo, ospitava la sua gloriosa attività si chiamerebbe – secondo i beninformati – vicolo del Popolo numero 1. Ed è cosa buona e giusta, poiché con il Popolo non si scherza. Però, visto che se c’è un Popolo numero 1, da qualche parte dev’esserci un Popolo numero 2, il che parrebbe confermare taluni dubbi serpeggianti sull’imparzialità della nostra democrazia, viene naturale proporre ai padroni del vapore cittadino di sparigliare le carte e dare a Carlino quel che è suo: l’intitolazione del mitico vicoletto come ‘vicolo di Carlino’. Con il risultato aggiuntivo di restituire alla città un vicolo del Popolo senza antipatiche preferenze numeriche. All’imbrunire tornava Carlino da Roma e sulla Rupe era come sentire affiorare dai cubetti acciottolati una voce melodiosa e rassicurante, capace di sgorgare dai secoli infiniti della storia cittadina. E quella voce diceva, agli orvietani distratti e a quelli con l’orecchio in attesa dell’acquisto tanto agognato: ‘Sono le sette e tutto va bene, si chiudono i battenti e per ogni ulteriore richiesta se ne riparla domani’.